Studio sul De agone christiano di S. Agostino
Giuseppe Redaelli
Cassago Brianza, Settimana Agostiniana 2014
2 settembre 2014
Introduzione
Nell’anno 392, il sacerdote Agostino scrive al suo superiore, il vescovo Valerio, per lamentare il misero stato spirituale e le malversazioni di alcuni membri del clero d’Africa:
Sappi dunque, signore beatissimo e degno di essere venerato con la più perfetta carità, che noi non disperiamo, anzi fortemente speriamo che il Signore e Dio nostro per mezzo dell’autorità connessa alla carica che eserciti, e che confidiamo sia stata impressa non nella tua carne ma nel tuo spirito, e mediante l’autorità suprema dei Concili e quella tua personale, possa guarire le numerose sconcezze carnali e le infermità di cui la chiesa africana soffre in molti suoi membri ma di cui pochi si addolorano […] Le gozzoviglie e le ubriachezze infatti si considerano permesse e lecite al punto che si celebrano persino in onore dei beatissimi martiri, non solo nei giorni solenni (e chi mai non vede che ciò è deplorevole, purché non osservi siffatte cose solo con gli occhi della carne?) ma anche quotidianamente. Se questa bruttura fosse soltanto vergognosa e non anche sacrilega, potremmo considerarla come una prova da sopportarsi con tutte le forze della tolleranza. Per quanto, dove lo mettiamo il passo in cui lo stesso Apostolo, dopo aver enumerato molti vizi – tra cui ha posto l’ubriachezza – concluse dicendo di non mangiare neppure il pane con siffatti individui? Ma tolleriamo questo in mezzo al lusso e alla corruzione di una casa privata e di quei conviti che si tengono fra le pareti domestiche e riceviamo pure il Corpo di Cristo insieme a coloro coi quali ci viene inibito di mangiare il pane; ma una vergogna così grande si tenga lontana almeno dai sepolcri dove riposano i corpi dei santi, almeno dai luoghi in cui si amministrano i Sacramenti e dalle case destinate alla preghiera![1]
Il sacerdote africano non riesce a contenere l’ira e lo sdegno: coloro che, più di tutti, dovrebbero essere esempio di condotta cristiana, e che sono stati chiamati a predicare la parola di Dio al popolo e ad amministrarne i sacramenti, si abbandonano al peccato della gola, sottomettendosi alla propria disordinata concupiscenza come un qualunque pagano; e nel fare questo, stravolgono anche il senso delle cerimonie religiose e deturpano i luoghi sacri, le tombe dei santi e martiri, presso cui avvengono alcuni dei banchetti!
Compito di estirpare il problema spetta invece alla Chiesa, a cominciare dalla figura del vescovo, che deve operare
con spirito di dolcezza e mansuetudine […] più ammaestrando che comandando, più ammonendo che minacciando […] Ma poiché dalla plebe ignorante e che vive secondo la carne codeste ubriachezze e dissoluti conviti nei cimiteri sogliono essere considerati non solo di onore per i martiri ma anche di conforto per i morti, mi pare che si possa più facilmente dissuaderli da una tale sconcezza e turpitudine se la si proibisca basandosi sull’autorità delle Scritture e se le offerte per le anime dei defunti sulle tombe stesse, che bisogna credere portino davvero qualche giovamento, non siano sontuose e vengano fatte a tutti quelli che le chiedono, senza arroganza ed alacremente; però, non si vendano: ma se qualcuno per devozione vorrà offrire denaro, lo eroghi ai poveri all’istante. Così non avranno l’impressione di trascurare le tombe dei loro cari (cosa che potrebbe causare non lieve dolore al loro animo) e nella Chiesa si celebrerà un rito conforme alla pietà e all’onestà. Questo intanto basti riguardo ai bagordi e alle ubriachezze[2].
Fedele allo spirito cristiano, Agostino suggerisce la mansuetudine, la correzione fraterna e il perdono nel correggere i cattivi costumi della Chiesa. Nel suo consiglio si sposano la volontà di seguire lo spirito del cristianesimo più autentico e il rispetto per i sentimenti e le usanze locali, nella consapevolezza che solo in questo modo è possibile cristianizzare davvero la società africana. Al posto dello sfarzo di banchetti sontuosi e smodati, che terminano nell’ubriachezza dei partecipanti, il sacerdote di Tagaste suggerisce una celebrazione più parca, caratterizzata dalla condivisione e dal dono, introducendo un’estetica della semplicità del rito che, secondo un percorso molto vicino all’Agostino maturo, conduce dalla visibilità esteriore all’intimità nascosta dell’uomo interiore, vero teatro della vita religiosa. La stessa semplicità di vita viene suggerita a correzione dell’ambizione e delle rivalità ecclesiastiche, la cui origine viene ravvisata nella superbia: unico rimedio a questo vizio è l’umiltà, che può essere appresa seguendo il modello di Cristo umile.[3]
La necessità di insegnare la giusta via verso la salvezza, di dare forma alla Chiesa e alla società secondo i principi della rivelazione è sempre presente ad Agostino negli anni del sacerdozio, e si presenta ancora più pressante quando, vescovo d’Ippona, si trova ad affrontare le divisioni profonde che animano, spesso in modo violento, il clero e il popolo della sua Africa.
Per tutta la sua vita – e attraverso tutta la sua opera – Agostino sente forte e viva la necessità di ricomporre l’unità armoniosa, che animava il mondo al momento della creazione, e che è stata spezzata dal peccato. Ed è ben conscio che, per ottenere questo risultato, è necessario che la società tutta diventi e rimanga cristiana. In questo ambito si può collocare una serie di opere agostiniane, rivolte a educare quegli strati della società che, per il basso livello culturale, hanno bisogno di essere guidate con attenzione e cautela lungo una via cristiana, la cui comprensione è resa sempre più complessa dalle sottili dispute teologiche e filosofiche dell’epoca: il De cathechizandis rudibus, breve trattato di catechesi rivolto a chi deve ancora apprendere il depositum fidei, in preparazione per il battesimo; e il De agone christiano, rivolto ai cristiani illitterati, coloro che, già a conoscenza delle verità e dopo aver ricevuto il battesimo, necessitano di indicazioni che li guidino verso la salvezza.
Nel De agone christiano, composto tra il 396 e il 397[4], Agostino usa un’argomentazione logica rigorosa e stringente, unita a immagini vivide e forti, per insegnare, ammaestrare e spingere all’azione i suoi lettori e ascoltatori. Il suo scopo primo è di essere ben compreso dai suoi lettori, anche da chi meno sia capace di comprendere le sottigliezze dell’argomentazione filosofica e religiosa. Quando, molti anni dopo, nelle Retractationes, rifletterà retrospettivamente sulla sua opera, il vescovo d’Ippona scriverà che “il libro su Il combattimento cristiano è stato scritto in un linguaggio semplice per i fratelli non esperti nella lingua latina. Contiene la regola della fede e le norme del vivere”[5].
In questo piccolo opuscolo, opera di catechesi post-battesimale, Agostino sviluppa il tema della lotta spirituale, necessaria per rimanere saldi nella fede.[6] Egli vi legge la vita cristiana come una lotta quotidiana contro le forze del male, guidate dal diavolo nel loro tentativo di condurre gli esseri umani alla dannazione. Nella sua introduzione all’edizione italiana del testo, Luigi Manca divide l’opera in due sezioni distinte: la prima, che arriva al capitolo tredici, contiene i precetti per vivere cristianamente; nella seconda, che va dal capitolo tredici al capitolo trentatré, vengono trattate le norme della fede.[7] Questa divisione cela, però, un’unità profonda, che si coglie osservando come la “prima parte” prepari alla comprensione della seconda; e gli ultimi diciannove capitoli perderebbero il loro significato in seno all’opera, apparendo solo come una trattazione parziale del credo niceno svolta attraverso una discussione dell’eresia, se letti senza la premessa gettata nei primi tredici.
Alla radice di questo opuscolo agostiniano si pone una serie di testi paolini, contenuti nelle epistole, in cui la vita di tutti i cristiani, incluso l’apostolo, è paragonata ora a una gara sportiva[8], ora a un combattimento[9] cui è necessario prepararsi. Tra questi, il testo più significativo è quello contenuto nella Lettera agli Efesini, al capitolo 6, versetti 10-17 – testo ripreso anche da Agostino:
Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio.
Scopo di questo breve studio è osservare come Agostino riprenda l’immagine paolina, ampliandola e approfondendola alla luce della propria esperienza e del proprio pensiero, trasformandola in una guida per il cristiano che, dopo il battesimo, si interroga su quale sia la strada da seguire verso la salvezza. L’analisi del passo della Lettera agli Efesini sopra menzionato, citato espressamente dal vescovo d’Ippona all’inizio del suo trattato[10], fornirà una guida per intendere lo spirito e la natura del magistero del vescovo d’Ippona.
Il combattimento cristiano
Come un generale che, prima della battaglia, incita i suoi uomini al combattimento, così Paolo chiama all’azione – incita i cristiani ad impegnarsi in una guerra spirituale contro le opere del diavolo. Il tema della lotta spirituale contro il male è molto importante nel Nuovo Testamento, sia nei Vangeli,[11] che nelle Lettere cattoliche: come ricorda Williamson, sia Giacomo[12] che Pietro[13] esortano i cristiani a resistere al male; e l’Apocalisse rappresenta la fine dei tempi proprio come un conflitto bellico tra gli esseri umani fedeli a Gesù Cristo e gli agenti del male[14]. Nella Lettera agli Efesini, Paolo definisce e precisa la natura del combattimento: “La nostra battaglia, infatti, non è contro creature fatte di carne e sangue, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”[15]. Agostino riprenderà questa precisazione paolina, approfondendola all’inizio del suo trattato.
L’incipit del De agone christiano ne richiama immediatamente il tema e l’argomento. La prima parola del testo latino è “corona”[16], un premio, ma anche un simbolo di grandezza e un richiamo alla regalità. È la corona della vittoria, cioè la corona che spettava, in antico, al vincitore di una gara sportiva. Il testo inizia così con un esplicito riferimento al premio che consegue alla vittoria: mostra la meta finale, e insieme indica la condizione necessaria per raggiungerla – la vittoria. Accanto a questo elemento si sancisce però anche la condizione necessaria per ottenere il premio: il combattimento. La gara in cui è necessario confrontarsi è dunque la lotta, o il pugilato. Il riferimento all’azione del combattere suggerisce il senso di uno sforzo: la via da seguire per giungere al premio non è semplice, non è mero camminare; essa richiede, invece, impegno, fatica, sofferenza, sacrificio; comporta il versare sangue e domanda che chi la percorre sappia sopportare le ferite e i colpi. La doppia negazione su cui è modulato il periodo sottolinea la necessità di questo combattimento, che è la condicio sine qua non per chiunque aspiri a raggiungere la meta finale, la corona della vittoria.
Il riferimento alla condizione introduce però anche l’elemento della promessa: la corona è promessa, il suo ottenimento non è conseguenza certa, ma dipende dalla volontà di chi in tal senso ha impegnato la propria parola. Si schiude qui l’orizzonte della fede e della speranza: la fiducia nella promessa ricevuta, e la speranza di ottenere il premio alla fine della gara. Si introduce anche, sullo sfondo, il tema della veridicità e della credibilità di chi ha offerto – promesso – la corona della vittoria, e di cui è forse lecito dubitare che manterrà la parola.
La corona della vittoria non è, dunque, un risultato certo, ma è oggetto della speranza; e la possibilità di ottenere il premio della speranza e della fede è concessa solo a chi prende su di sé il comportamento della lotta e del combattimento. Questa indicazione conduce con naturalezza all’identità dell’avversario, contro cui è necessario combattere. Agostino, però, definisce tale avversario attraverso una lunga digressione, che richiama il precedente e l’esempio di Cristo. Questa figura è introdotta prima nella sua divinità, come “Potenza e Sapienza di Dio e il Verbo”, immutabile ed eterno, superiore a “ogni creatura”[17].
Agostino ripercorre qui la storia della salvezza, in un testo dal sapore catechetico, che inserisce la necessità che il cristiano si impegni nel combattimento spirituale nel contesto dell’imitatio Christi:
E poiché sotto di Lui sta anche la creatura che non ha peccato, quanto più sta sotto di Lui ogni creatura peccatrice? E poiché sotto di Lui sono tutti gli angeli santi, molto più a Lui sono sottoposti gli angeli prevaricatori, di cui il diavolo è il capo. Ma poiché quest’ultimo aveva ingannato la nostra natura, l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di assumere la nostra stessa natura, affinché da essa stessa fosse vinto il diavolo, e quello che il Figlio di Dio ha sottoposto a sé, fosse sottoposto anche a noi[18].
Cristo stesso, assumendo l’umanità e, da vero uomo e vero Dio, sottomettendo il diavolo, ha indicato la strada per chi voglia giungere alla salvezza: resistere contro il diavolo e “gli angeli prevaricatori”, seguendo il suo esempio e le possibilità che la sua vittoria ha aperto.
L’avversario del cristiano è dunque il diavolo: in Ef 6, 12, Paolo menziona gli spiriti ribelli a lui soggetti, elencando i Principati, le Potenze e gli spiriti del male, secondo una classificazione tipica della demonologia antica e che tanto influsso avrà sulla cultura e sul folklore europei. Nel De agone christiano, Agostino definisce con attenzione l’identità dell’avversario, così che il cristiano impegnato sulla via dell’ascesi lo sappia riconoscere. Egli è il principe degli angeli ribelli, tentatore e fonte di tutte le cupidigie, dell’amore per ciò che è passeggero e della dimenticanza di Dio che tale amore reca con sé. Poiché, però, l’amore trasporta l’amante verso l’amato[19], le cupidigie conducono l’anima alla morte e al nulla che attendono tutto ciò che diviene e passa. Per questo motivo al diavolo sono soggetti tutti coloro che trascurano l’eterno Dio e si smarriscono, invece, nell’amore per le cose caduche e mutevoli – tutti oggetti del desiderio che, per il loro carattere effimero e per il possesso labile che se ne ha, non sanno dare alcuna felicità stabile[20].
Proprio tramite la cupidigia il diavolo regna sugli esseri umani, dominandone i desideri dall’interno dell’anima stessa. Con questa caratterizzazione dell’avversario par excellence, secondo un movimento che è tipico di tutto il suo pensiero, Agostino sposta lo scontro nell’interiorità dell’essere umano: quest’ultima diventa il vero campo di battaglia contro le forze del male, perché qui si muove e si decide il male: “Infatti quelli che ci combattono all’esterno, noi li vinciamo internamente, col vincere le concupiscenze per mezzo delle quali ci dominano”[21]. Della necessità di questo spostamento, il vescovo d’Ippona fornisce una giustificazione scritturistica:
Dunque si vincono le invisibili potenze a noi ostili là dove si vincono le invisibili cupidigie. E perciò poiché in noi stessi vinciamo le brame delle cose temporali, è necessario che in noi stessi vinciamo anche colui che regna nell’uomo per mezzo delle stesse cupidigie. Quando infatti fu detto al diavolo: Mangerai terra, fu detto al peccatore: Tu sei polvere e in polvere ritornerai. Il peccatore fu dunque dato in pasto al diavolo. Facciamo in modo di non essere terra, se non vogliamo essere divorati dal serpente. Come infatti ciò che mangiamo lo convertiamo nel nostro corpo, affinché lo stesso cibo si trasformi in ciò che noi siamo secondo il nostro corpo, così a causa dei cattivi costumi per mezzo della malvagità e della superbia e dell’empietà ciascuno diventa ciò che è il diavolo, cioè simile a lui, ed è sottoposto a lui, come il nostro corpo è soggetto a noi. E questo è ciò che si dice, essere mangiato dal serpente. Chiunque pertanto teme quel fuoco che fu preparato per il diavolo ed i suoi angeli, si sforzi di trionfare su di lui in se stesso[22].
Nel giustificare la necessità di spostare il luogo della lotta nell’interiorità dell’uomo, Agostino accosta due versetti del terzo capitolo del Genesi (3, 14.19). L’accostamento dei concetti di “terra” e “polvere” permette di intendere che l’uomo è stato da Dio dato in pasto al diavolo per la sua colpa. Se quindi non vuole essere mangiato dal serpente, l’uomo deve evitare di diventare terra. Il cibo materiale, che dà sostanza al corpo, è paragonato per metafora ai moti dell’animo e alle azioni che ne derivano: i vizi e le azioni malvagie che da questi hanno origine danno la loro sostanza all’anima, trasformandola a immagine del diavolo e assoggettandogliela. Nelle Confessioni, Agostino definisce l’essenza del male come un nulla[23]. Riprendendo in questo senso la metafora del cibo nel secondo capitolo del De agone christiano, si può intendere come l’anima, nutrendosi del nulla, del nulla diventi preda, nel nulla si senta attratta e verso il nulla inizi a precipitare. Persa nell’inseguire oggetti che, in fondo, presi da sé, non si rivelano altro che vuoto e nulla, l’anima inaridisce, perde vitalità e finisce per diventare essa stessa lo specchio di ciò che cerca – una schiavitù da cui non saprà più riscuotersi da sola.
I vizi sregolati e i desideri disordinati abbassano e avviliscono l’anima, allontanandola da Dio, fonte dell’essere e della vita. Eppure, le “brame delle cose temporali”[24] attirano e quasi adescano gli esseri umani. Certo, una volta ottenuto, un bene materiale reca a chi lo possiede gioia e soddisfazione; ma tale felicità è passeggera: limitato per sua natura nel tempo e nello spazio, l’oggetto non può fornire una felicità stabile, e presto il desiderio si sposterà su di un altro oggetto, e poi su un altro e un altro ancora; neppure il possesso in sé, per quanto saldo, è mai definitivo: come è stato conquistato, l’oggetto può essere perso, o sottratto, trasformando la felicità in miseria. Così l’anima di chi insegue solo possessi materiali è smarrita tra un desiderio mai soddisfatto, una fame mai saziata, e il timore di perdere ciò che si è acquistato con tanti affanni. I beni materiali non sono nulla senza il Creatore, che dal nulla li ha tratti: amandoli, il malvagio scivola verso il nulla.
Proprio dall’attaccamento ai beni temporali, scrive Agostino, è allora possibile distinguere i buoni dai malvagi: la felicità e la miseria di questi ultimi dipende, infatti, dall’illusione del possesso[25]. Distaccandosi da tali beni, invece, il buono possiede una felicità più stabile e vera. Il combattimento cristiano si rivela qui lotta per la libertà dal dominio dei desideri smodati; e lotta per conquistare e conservare la felicità piena. In questo senso Agostino intende la metafora dello “spogliarsi dalla carne”, in cui “carne” è simbolo dell’attaccamento a un possesso materiale egoistico e cieco, fine a se stesso. E in questo sforzo di distaccarsi il modello da seguire è Cristo: “noi abbiamo un maestro il quale si è degnato di mostrarci in che modo si vincono i nemici invisibili. Di lui infatti dice l’Apostolo: Spogliandosi della carne, fu modello ai principati e alle potestà, trionfando con sicurezza su di loro in se stesso”[26].
Questa lotta per la salvezza, la libertà interiore e la felicità va condotta camminando nei precetti spirituali di Dio. L’esperienza di Paolo, nelle sue stesse parole, diventa esempio da imitare:
Pertanto lo stesso Apostolo insegna dicendo: Io non combatto per così dire battendo l’aria, ma castigo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché predicando agli altri, per caso non sia io riprovato. Quindi aggiunge: Siate miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo. Perciò bisogna intendere che anche lo stesso Apostolo abbia trionfato in se stesso delle potenze di questo mondo, come aveva detto del Signore di cui si professa imitatore. Imitiamo dunque anche noi lui, come ci esorta e castighiamo il nostro corpo e riduciamolo in schiavitù, se vogliamo vincere il mondo. Poiché questo mondo ci può dominare per mezzo dei piaceri illeciti e le vanità e la pericolosa curiosità, cioè quelle cose che allettano gli amanti dei piaceri temporali con dannoso piacere in questo mondo e li costringono a servire al diavolo ed ai suoi angeli: se abbiamo rinunziato a tutte queste cose, riduciamo il nostro corpo in schiavitù[27].
Per vincere il male è dunque necessario castigare il corpo e renderlo servo dell’anima. “Ridurre il corpo in servitù” non indica, però, un atteggiamento sprezzante nei confronti del corpo. Il vescovo d’Ippona non intende ricadere in un dualismo di stampo platonico o gnostico, in cui corpo e anima siano sostanze di natura opposta. Al contrario, questa espressione significa, per Agostino, sottomettersi in tutto e per tutto a Dio con buona volontà e carità[28]. Così, anche l’espressione castigare il corpo non si riferisce soltanto a una pratica penitenziale fondata sulla rinuncia ascetica e sulla macerazione della carne. Il verbo latino deriva, infatti, dall’aggettivo castus, che significa sì puro e senza macchia, ma anche integro, onesto – così che il verbo, che nella sua etimologia contiene ancora il senso di un (ri)condurre [agere] ad essere castus, significa fin dall’epoca classica tanto punire, quanto riportare a purezza e integrità, ma anche contenere e raffrenare con la disciplina.
Agostino illustra la necessità di una tale castigazione e riduzione in schiavitù del corpo spiegando come il mondo domini l’individuo per mezzo di piaceri illeciti, vanità e perniciosa curiositas – curiosità pericolosa. Questi termini, tipici del linguaggio filosofico e religioso del vescovo d’Ippona, indicano tuttavia non oggetti del mondo, ma atteggiamenti e stati interiori (si direbbe oggi: psicologici). Così i piaceri illeciti consistono nel ricercare un piacere fine a se stesso, usando in tal senso delle cose del mondo senza considerarle nella loro origine e nel loro fine ultimo. La vanità è il continuo, vuoto e insensato ricercare il nulla delle cose, che abbandona ciechi in balia di quello stesso nulla.[29] Ai piaceri illeciti e alla vanità, poi,
s’aggiunge un’altra forma di tentazione, pericolosa per molteplici ragioni. Esiste infatti nell’anima, oltre la concupiscenza della carne, che risiede nella soddisfazione voluttuosa di tutti i sensi, cui si asserviscono rovinosamente quanti si allontanano da te, una diversa bramosia, che si trasmette per i medesimi sensi del corpo, ma tende, anziché al compiacimento della carne, all’esperienza mediante la carne. È la curiosità vana, ammantata del nome di cognizione e di scienza. Risiedendo nel desiderio di conoscere, ed essendo gli occhi, fra i sensi, lo strumento principe della conoscenza, l’oracolo divino la chiamò concupiscenza degli occhi. La vista infatti appartiene propriamente agli occhi, ma noi parliamo di vista anche per gli altri sensi, quando li usiamo per conoscere. Non diciamo: “Ascolta quanto luccica”, oppure: “Odora come brilla”, oppure: “Assapora come splende”, oppure: “Tocca come rifulge”; in tutti questi casi si dice sempre: “Vedi”. Non solo diciamo: “Vedi quanto riluce”, per le sensazioni cioè che gli occhi soli possono avere; ma anche: “Vedi che suono, vedi che odore, vedi che sapore, vedi che ruvido”. Perciò qualunque esperienza sensoriale viene chiamata, come dissi, concupiscenza degli occhi, perché l’ufficio di vedere, prerogativa degli occhi, viene usurpato anche dagli altri sensi per analogia, quando esplorano un oggetto per conoscerlo[30].
La curiosità è una forma di concupiscenza sregolata, un continuo desiderio di sperimentare il mondo con i sensi; benché si ammanti del nome di scienza (cioè se ne rivesta, nel tentativo di celare la superficialità e il vuoto che la caratterizzano), le mancano lo sforzo e la disciplina necessari per fondare l’esperienza nella verità, così che si trasformi in vera scienza.
Ricondurre il corpo sotto il controllo dell’anima razionale, castigare i sensi con la disciplina, significa riportare la concupiscenza sotto il controllo della ragione – cessare di disperdersi nel mondo e rientrare in se stesso, secondo la famosa espressione del De vera religione[31], passare da uno stadio esistenziale alienato – smarrito nell’altro da sé che è il mondo – per riappropriarsi di se stessi nel proprio centro, riportando l’ordine in un’anima che, dimentica della propria natura razionale, è altrimenti preda degli istinti del corpo.
I pericoli e le sofferenze causati dalla brama smodata e dal possesso materiale restano però celati all’interno del fascino dell’oggetto desiderato. Con fine psicologia, Agostino illustra per mezzo di una similitudine i pericoli insiti nel ricercare i possessi materiali:
Tutti i cattivi dunque sono ordinati in modo tale che ciascuno nuoce a se stesso e tutti si danneggiano vicendevolmente. Infatti desiderano ciò che è amato in modo pernicioso e ciò che ad essi può essere facilmente portato via; e queste cose portano via a se stessi a vicenda quando si perseguitano. E così sono angustiati coloro ai quali vengono tolti i beni temporali, perché li amano; al contrario coloro che se ne impossessano, godono. Ma una siffatta gioia è cecità e somma miseria: infatti coinvolge ancor più l’anima conducendola a tormenti sempre più grandi. Anche il pesce è contento, quando, non vedendo l’amo, divora l’esca. Ma appena il pescatore comincia a tirarlo, per primo vengono attorcigliate le sue viscere, in seguito, da tutto quel piacere per mezzo di quella stessa esca dalla quale era stato attratto, è trascinato alla morte. Similmente accade di tutti coloro che si reputano felici per i beni terreni. Abboccano, infatti, all’amo, e con quello vanno errando. Verrà il tempo quando sentiranno quanti tormenti avranno divorato con l’avidità[32].
L’immagine, pregna di significati simbolici, evoca in modo vivido il destino di inganno e di sofferenza che attende chi dedica la propria vita all’inseguimento di beni che, colti lontano dall’azione creatrice di Dio, non sono se non nulla. L’acquisto del bene materiale danneggia chi lo brama per se stesso: il malvagio, infatti, è ferito proprio da ciò da cui si attendeva nutrimento e piacere. E questa ferita non si limita ad uno strappo netto, brusco definitivo. L’immagine violenta, espressionistica scelta da Agostino evoca un senso di dolore viscerale, che giunge fino al profondo dell’individuo, stravolgendolo e straziandolo. La morte non giunge veloce e liberatrice, ma come meta spettrale e terribile alla fine di un’atroce sofferenza.
Allo stesso tempo, quest’immagine evoca l’impressione di un male subdolo, nascosto, che combatte non in modo aperto, ma con inganni e astuzie; un male che, come un pescatore, non ha fretta, ma sa gettare l’esca e attendere che un pesce abbocchi. Di fronte a questo male, il cristiano è invitato a prestare attenzione, a vagliare attentamente i propri desideri e la propria condotta, considerandoli alla luce dei precetti contenuti nelle Scritture e attraverso la lente della ragione – così da evitare l’amo celato nel nulla che le cose temporali sono, lontano da Dio, e che annichilisce chi le cerca.
Il richiamo alla lotta
Nel capitolo sesto della Lettera agli efesini, Paolo scrive all’imperativo, chiamando i cristiani a essere forti di fronte alle minacce del diavolo. Tale forza, i cristiano non devono però trarla da sé – devono invece attingere alla forza di Dio: il passivo del verbo, suggerisce Williamson, indica anzi che non sono i fedeli a prendere, con moto della loro volontà, la forza di Dio. Il cristiano non è sacerdote, stregone o sciamano del mondo pagano, che incanali in sé il potere divino. Anzi, di fronte a tale potere, il cristiano si fa passivo: si offre, si apre alla forza che Dio gli dona. Paolo esorta quindi il cristiano ad aprirsi al dono di Dio – un dono che, giungendo da Colui che dona la vita, è anche forza che tutto rende possibile[33].
Agostino doveva sentire questo invito molto vicino, e nel momento di crisi più acuta, vicino alla conversione ma ancora esitante[34], proprio in un passo della Lettera ai Romani di Paolo, molto simile a questo di Efesini, aveva trovato la risposta all’indecisione della sua volontà frammetata:
Così parlavo e piangevo nell’amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: “Prendi e leggi, prendi e leggi” […] Arginata la piena delle lacrime, mi alzai […] Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell’Apostolo all’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: Non nelle crapule e nelle ebrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze[35]. Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono[36].
Agostino trova la soluzione alle angosce che lo travagliano proprio in un testo paolino che, invitandolo ad abbandonare un amore eccessivo e disordinato dei piaceri del mondo materiale, visti come fini a se stessi, gli suggerisce di rivestirsi del Signore Gesù Cristo, che come abito e insieme armatura lo proteggerà dalle tentazioni e lo accompagnerà verso la salvezza. Tale armatura, però, pur cercata alla cieca e desiderata, non è da lui afferrata – gli giunge invece come dono, sotto forma di una voce giocosa, fanciullesca. Pur protendendosi verso la salvezza offerta dalla via cristiana, da solo il giovane retore non era stato in grado di mutare la propria vita: la conoscenza intellettuale era presente, ma le forze erano minate da una concupiscenza senza regole. La forza per abbracciare una regola era allora giunta dall’esterno – dalla dimensione invisibile, “da una casa vicina”, oltre il muro che divide Agostino dal mondo e lo isola nel suo dolore. E la voce è un canto (cum cantu) che subito incanta il retore, traendolo con la sua forza fuori dal suo dolore. Non è dunque Agostino che si trae da solo, con le forze del suo altissimo ingegno, fuori dal dolore in cui il disordine della concupiscenza lo ha gettato – egli ne è invece tratto fuori, attingendo dal dono di un canto, dalle parole dell’Apostolo, e dall’esempio di Cristo, una forza che non è sua, ma altra.
A chi aveva vissuto in profondità e sulla propria pelle il travaglio che reca una concupiscenza sregolata, e insieme il senso di incapacità e profonda debolezza di chi, da solo, cerca di trarsene fuori; a chi aveva vissuto tutto ciò, le parole dell’Apostolo Paolo dovevano suonare ancora più vicine. Nel testo del De agone christiano, l’esperienza umana del giovane Agostino si fa sentire ancora negli scritti dell’uomo maturo, accompagnata da una riflessione che le dà senso e vi vede un vissuto comune a tutti gli esseri umani.
Nella Lettera agli Efesini, Paolo invita i cristiani ad armarsi, indossando l’armatura completa (πανοπλία) di Cristo. Tale armatura, proteggendo interamente il cristiano, può essere intesa come una deliberata, completa immersione nel totus Christus – un invito a conservare la consapevolezza di essere in Cristo, crescendo in Cristo e indossando il nuovo Sé che è Cristo[37]. Scopo dell’armarsi è la capacità di resistere e restare saldi: quella che Paolo annuncia è una lotta di resistenza, non di conquista. Nella teologia paolina, infatti, solo Dio può sconfiggere Satana, come ha già fatto Cristo con la sua morte e la sua risurrezione. Scopo del cristiano nella sua lotta, invece, è conservarsi in Cristo, evitando di cedere alle lusinghe del diavolo[38].
Proprio contro tali lusinghe il cristiano deve indossare l’armatura di Dio. Il concetto del periodo precedente è ripreso in Ef 6, 13 per ampliarlo e approfondirlo con maggiore ricchezza di dettagli. Se, infatti, l’armatura è indossata per stare saldi, sono i suoi componenti, elencati da Paolo con precisa attenzione, a rendere possibili la forza, la resistenza e la stabilità necessarie.
Primo dei componenti dell’armatura, nell’elenco paolino, è la verità. Come cintura che cinge i fianchi, essa è simbolo tradizionale della castità, cioè della capacità di controllare l’impulso sessuale. Per sineddoche, tuttavia, tale virtù è simbolo della temperanza – la virtù che attribuisce una misura e un limite agli impulsi violenti della concupiscenza, riconducendoli all’ordine e donando loro uno scopo. Conoscere la verità, suggerisce Paolo, rafforza la temperanza – un pensiero che Agostino condivide appieno.
Nel De agone christiano, Agostino commenta che la verità si coglie attraverso l’occhio interiore, ma la sua conoscenza è preclusa a chi vive nel male[39] e non sa liberarsi della falsa intelligenza nata da presunzione e orgoglio:
Vi sono degli stolti che dicono: non poteva la Sapienza di Dio liberare gli uomini in modo diverso senza assumere l’umanità, senza nascere da una donna e patire tutte quelle sofferenze da parte dei peccatori? A costoro rispondiamo: lo poteva certamente; ma se avesse fatto diversamente, sarebbe dispiaciuto ugualmente alla vostra stoltezza. Se non apparisse agli occhi dei peccatori, certamente la sua luce eterna, che si vede con gli occhi interiori, non potrebbe essere vista dalle menti inquinate. Ora dal momento che si è degnato di istruirci visibilmente per prepararci alle cose invisibili, dispiace agli avari, perché non ha assunto un corpo tutto d’oro; dispiace agli impudichi, perché è nato da una donna (infatti, non hanno molto piacere gli impudichi che le donne concepiscano e partoriscano); dispiace ai superbi, perché ha sopportato con infinita pazienza le offese; dispiace ai delicati, perché è stato crocifisso; dispiace ai timidi, perché è morto[40].
Dove non si abbandoni alla fede, come base per la ricerca razionale, o dove la fede sia imperfetta, l’orgoglio e la superbia intellettuale spingono ad adattare la rivelazione alle attese umane. È allora necessaria una fede salda che, nutrita dalla carità, consenta all’individuo di andare oltre se stesso, alla ricerca di una comprensione davvero profonda del mistero di Dio nella sua verità.
Perché sia raggiungibile, la verità deve essere oggetto di desiderio e tensione conoscitiva, secondo un percorso che avanza nel profondo in parallelo con la crescita spirituale dell’individuo. Quanto più progredisce nella carità, la cui semplicità purifica il cuore, e quanto più è guidato dalla fede, con tanta più chiarezza e profondità il cristiano può attingere alla verità[41]. Desiderio di Dio e slancio verso Dio, la carità sospinge infatti l’anima alla ricerca di quella verità in cui l’oggetto del suo amore, Dio stesso, si manifesta ed è presente. E la fede, come affidarsi a Dio, permette di gettare le basi su cui si potrà poi costruire la comprensione razionale.
Il simbolo della cintura allacciata intorno ai fianchi, menzionato da Paolo nella Lettera agli Efesini, è tuttavia più vasto e articolato. Come un anello, infatti, la cintura forma un cerchio, chiuso saldamente da un nodo, che circonda la totalità dell’uomo – ponendosi tra il busto e il capo, cioè la sua parte più alta e spirituale, e la parte inferiore del corpo, simbolo degli istinti più bassi – e la protegge. Il cerchio disegnato dalla cintura, a sua volta, è forma perfetta, simbolo della totalità e del cosmo; e, in quanto priva di ordine, di inizio e di fine, simbolo di infinito spaziale e temporale – cioè di Dio. Cinto dalla verità, il cristiano si getta oltre i limiti dello spazio e del tempo, oltre le banali tentazioni della concupiscenza, immergendosi nel totus Christus, che trascende i confini angusti dell’esistenza terrena[42]. Qui, ricorda Agostino, con l’intelligenza sostenuta da fede e carità, il cristiano può “conoscere e venerare anche il suo Creatore”[43], che è infinito, “non circoscritto o limitato da alcuna forma di corpo”[44] e “immutabile”[45], ma “ha mostrato agli occhi mutabili degli uomini la creatura mutabile che egli assunse con immutabile maestà”[46].
Secondo componente dell’armatura disegnata da Paolo è la “corazza della giustizia”. Il concetto di giustizia è qui inteso sia in senso attivo, come la capacità di conoscere e fare ciò che è giusto – conoscenza che, come una corazza, protegge contro il male e le sue trappole: così la intende il Williamson, seguendo in questo molti commentatori del testo paolino. In questo passo, tuttavia, il concetto di giustizia può anche essere anche in senso passivo, come la certezza di ricevere da Dio il giusto premio per le proprie azioni e la propria condotta. In questo senso, il concetto di giustizia si lega a quello di fede, verso cui mira e cui conduce il discorso di Paolo.
La giustizia, commenta Agostino nel De agone christiano, è il risultato dell’ordine cui Dio, sommo principio e origine di ogni ordine, ha dato forma nella creazione. Ogni cosa nell’universo, scrive il vescovo d’Ippona, è ordinata alla giustizia per volontà divina, così che sia le azioni buone che quelle malvagie sono rivolte al bene:
ogni creatura voglia o non voglia è soggetta a un solo Dio e suo Signore. Ma di ciò siamo ammoniti, a servire al Signore Dio nostro con tutta la volontà. Poiché il giusto serve liberamente, l’ingiusto invece serve in catene. Tutti però servono alla divina Provvidenza; ma alcuni obbediscono come figli e con essa fanno ciò che è bene, altri poi sono legati come schiavi e di essi avviene ciò che è giusto. Così Dio onnipotente, Signore di tutte le creature, il quale creò tutte le cose, com’è scritto, assai buone le ha ordinate in modo che riesca del bene dalle cose buone e dalle cose cattive[47].
Nessuno, sostiene Agostino, sfugge alle leggi dell’Onnipotente. Rivestirsi della corazza della giustizia richiede allora che l’individuo si sottometta a Dio “con buona volontà e carità”[48]. La giustizia è in questo nutrita e sorretta dalla fede, e conduce alla fede tramite la comprensione intellettuale dell’ordine in cui ognuno è da sempre inserito.
Terzo elemento dell’elenco paolino in Efesini 6, 10-17 sono i “piedi calzati e pronti a propagare il vangelo”. Come ricorda Williamson[49], si richiama qui un passo di Isaia (52, 7) per cui “sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»”. I piedi, simbolo di ciò che permette di muoversi e spostarsi, introducono una nota nuova, un’impressione di dinamismo vivace – l’essere pronti allo scatto, alla corsa, a partire per un viaggio. In contrasto con le immagini precedenti, di lotta e combattimento, che indicano però una stasi tenace, una resistenza passiva, l’unica immagine di azione e di movimento è legata alla propagazione della pace.
L’insegnamento della Parola di Dio, scrive Agostino nel De cathechizandis rudibus, reca gioia a chi se ne occupa. La carità, muovendo il catechista all’insegnamento, si esprime nella gioia e nel trasporto del discorso[50]; allo stesso modo, condurre sulle vie della pace chi si era allontanato dalla verità dona gioia[51]; e gioia dona il pensare che, attraverso il discorso e la predicazione, si apre il misero alla conoscenza di Dio[52]. Tutto il ministero del sacerdote e del predicatore, sostiene dunque Agostino, è definito dalla gioia che lo pervade, e che proviene dall’effusione della carità nell’insegnamento.
Tale gioia giunge dal rilassare la contractio dello spirito che impedisce all’individuo di vivere la gioia: è un lasciarsi andare all’azione dello spirito, un affidarsi a Dio che richiede umiltà e disposizione ad aprirsi all’Altro. Da questa distensione provengono gioia ed esultazione nella tranquillità. L’accostamento ossimorico indica come la gioia del cristiano non sia l’esplosivo esultare della folla circense, né il ridere vociferante della folla al mercato: questi sono infatti movimenti che avvengono in superficie, e che non sanno toccare il profondo, la radice dell’animo al cui fondo l’uomo è unito a Dio. La distensione dello spirito è invece un dischiudersi all’azione di Dio, una gioia che nasce dal profondo, e dalle profondità dello spirito, nell’incontro con Dio, emerge alla luce del giorno. Tale gioia è un mutamento interiore secundum Deum, legato al compimento dell’opera buona. Il predicare la Parola è un donare: e qui Agostino ricorda[53] le parole dell’apostolo Paolo, che, nel testo vetero-latino dell’Antico Testamento, scrive: “Hilarem enim datorem diligit Deus”[54].
Secondo il suggerimento di Paolo, come indossa l’armatura di Dio, così il cristiano deve afferrare sempre “lo scudo della fede”[55]. Come uno scudo, il volontario affidarsi alla promessa di Dio protegge il cristiano dalle lusinghe del desiderio. L’affidarsi a Dio e alle sue promesse dà senso all’insensato. Contro i dardi infuocati, che perforano e feriscono, e così facendo incendiano e consumano nel fuoco – e che la fede spegne; e contro il desiderio intemperante, che sempre cerca e chiede di più; e contro il senso di perdita e di mancanza, la disperazione nata dall’impossibilità di colmare il desiderio: contro tutto ciò la fede offre protezione e difesa.
La fede è la virtù cui ogni passo del testo agostiniano sembra, direttamente o indirettamente, condurre. Essa, come si è visto, origina la carità e la speranza, da cui è a sua volta nutrita; ed è premessa fondamentale all’intelligenza della verità, che poi, a sua volta, la rinforza e l’approfondisce. Per ridurre il corpo a schiavitù, secondo quanto si è visto, è necessario prima sottomettere l’anima a Dio – affidarsi cioè e abbandonarsi totalmente alla volontà, carità e giustizia divine[56]. La fede per prima purifica l’occhio della mente, mostrando le prime realtà spirituali, i precetti che poi, seguiti, fanno germogliare e crescere speranza e carità, facendo risplendere ciò che prima solo si credeva.
La fede è però condizione essenziale per il rispetto dei precetti: è proprio la fede che, per prima, dà loro un senso – è la fede che in principio, prima che l’azione sia sorretta dall’intelligenza delle cose divine, giustifica il comandamento di amare il prossimo come se stessi, o l’ingiunzione di amare i propri nemici, quando l’odio e l’egoismo sembrano più naturali. Come latte, la fede nutre e fa crescere in Cristo:
Nutriti con il latte di questa semplicità e sincerità di fede, noi ci nutriamo in Cristo e quando siamo ancora piccoli non desideriamo gli alimenti dei grandi, ma cresciamo con nutrimenti molto salubri in Cristo, mentre progrediscono i buoni costumi e la giustizia cristiana, nella quale la carità di Dio e del prossimo è perfetta e ben salda; in modo che ciascuno di noi trionfi, in se stesso, nel Cristo di cui si è rivestito, sul diavolo nemico e i suoi angeli[57].
Ed è così la fede che prepara la strada alle altre virtù e conduce l’individuo sul cammino della salvezza. Proprio “l’elmo della salvezza” è l’ultimo componente dell’armatura di Dio di cui scrive Paolo nella Lettera agli Efesini. Come sottolineato da Williamson[58], il verbo usato qui da Paolo, “prendete”, in greco δέξασθε, è voce di δέχομαι, che può essere tradotto sia con prendere che con ricevere. In questo modo, l’immagine paolina si riferisce alla duplice valenza del dono della salvezza, ricevuta da Dio nell’annuncio di Gesù, e speranza presa dal cristiano che, di sua volontà, accetta la promessa. Ricevuta da Dio (e dunque dall’alto), la speranza, come un elmo, protegge il capo dai colpi provenienti dall’alto – dall’azione di quegli spiriti simili all’aria, che, risiedendo per metafora nell’aere, tentano il cristiano con lusinghe del mondo materiale. La stessa speranza, commenta Agostino, rafforzata nella fede e col crescere della carità, muove il mondo verso Dio, animando la Chiesa.
Attendendo alle sue Confessioni all’incirca nello stesso periodo in cui completa il De agone christiano, Agostino scrive, rivolgendosi a Dio in quella tensione che già ne traduce la natura, che tutta la Chiesa è protesa nella speranza della salvezza, che costituisce l’essenza della vita di ogni cristiano ed è alimentata dalla fede:
Tuttavia finora siamo luce per la fede, non ancora per la visione. Nella speranza fummo salvati, e una speranza che si vede, non è speranza. L’abisso chiama ancora l’abisso, ma ormai con la voce delle tue cateratte. Chi dice ancora: “Non potei parlarvi come a esseri spirituali, ma carnali“, pensa di non aver ancora capito nemmeno lui. Dimentico delle cose che stanno dietro le spalle, si protende verso quelle che stanno innanzi e geme sotto il peso del suo fardello. La sua anima ha sete del Dio vivo come i cervi delle fonti d’acqua. Perciò dice: “Quando giungerò?“. Desideroso di essere rivestito della sua abitazione celeste, così apostrofa l’abisso inferiore: “Non uniformatevi a questo secolo, riformatevi invece, rinnovando il vostro cuore“; e così: “Non dovete divenire fanciulli di mente, ma siate piccoli nella malizia per essere perfetti di mente“; e così: “O galati insensati, chi vi ha incantato?“. Ma non è più la sua voce; è la tua, sei tu, che hai mandato il tuo spirito dal cielo per mezzo di Colui, che ascendendo in alto aprì le cateratte dei suoi doni, affinché la piena del fiume rallegrasse la tua città. Per lei sospira l’amico dello sposo, avendo già con sé le primizie dello spirito, ma, ancora gemebondo fra sé nell’attesa dell’adozione, la redenzione del suo corpo. Per lei sospira, poiché è membro della sposa; per lei si affanna, poiché è amico dello sposo; per lei si affanna, non per sé, poiché con la voce delle tue cateratte, non con la voce sua, invoca l’altro abisso, oggetto del suo affanno e del suo timore. Teme che come il serpente ingannò Eva con la sua astuzia, così anche i loro pensieri non si corrompano allontanandosi dalla castità, che è nel nostro Sposo, il tuo unigenito. Ma quale non sarà lo splendore della sua luce, allorché lo vedremo com’è, e saranno passate le lacrime, che sono divenute il pane dei miei giorni e delle mie notti, mentre mi si chiede quotidianamente: “Ov’è il tuo Dio?”.
In modo indiretto, il discorso agostiniano può gettare nuova luce sul senso dell’immagine dell’elmo. La speranza, infatti, è la capacità di muovere verso una meta che ancora non è visibile, ma a cui si è creduto per fede. Invisibili sono anche, nel testo agostiniano[59], le potenze maligne che insidiano il cristiano – e l’elmo della salvezza, la speranza che si adempiano le promesse di Cristo, nutrita dalla fede e dalla carità, diventa protezione contro la disperazione che la brama dei beni del mondo e il loro labile possesso recano con sé.
Nel testo paolino, a completare l’armatura di Dio, il cristiano riceve/prende (il verbo è ancora δέχομαι) la “spada dello spirito”. Lo Spirito Santo diventa e insieme offre una spada, ricevuta da Dio nell’ascolto della parola e nel protendersi della preghiera; e presa nel discorso del cristiano che, ispirato, prega e controbatte alle lusinghe del mondo.
Più o meno all’epoca in cui lavora al De agone christiano[60], nell’interpretare in un discorso di fronte ai suoi fedeli il Salmo 37, il vescovo d’Ippona definisce la preghiera come la voce del desiderio:
Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Perché non invano ha detto l’Apostolo: Pregando senza interruzione. Forse noi senza interruzione pieghiamo il ginocchio, prostriamo il corpo, o leviamo le mani, per adempiere l’ordine: Pregate senza interruzione? Se intendiamo il pregare in tal modo, credo che non lo possiamo fare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore che non conosce interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato, non smettere mai di pregare. Se non vuoi interrompere la preghiera, non cessar mai di desiderare. Il tuo desiderio continuo sarà la tua continua voce[61].
La carità, come amore e desiderio di Dio, anima la preghiera, che ne è espressione. Conducendo l’atto del pregare dal gesto esteriore all’interiorità dell’anima, Agostino lo rende la manifestazione e l’espressione della tensione verso Dio. Il pregare ininterrotto diventa allora il perfetto desiderare della carità e il perfetto protendersi della speranza, che conquisteranno il loro oggetto solo al momento dell’incontro diretto con Dio, qui identificato con il riposo del sabato: “il nostro cuore non ha posa, finché non riposa in te”.[62] Sottratta al discorso vano – la vanitas e la vana curiositas, che si smarriscono nel nulla del mondo – la voce diventa una cosa sola con la carità e la speranza e dà loro corpo visibile nella preghiera.
Per questo, continua Agostino, chi non prega neppure ama più, neppure spera più, ma è immobilizzato da un gelo senza vita: “Tacerai se cesserai di amare […] Il gelo della carità è il silenzio del cuore”,[63] mentre la voce della preghiera è calore vitale, grido di desiderio che, con accostamento ossimorico, conduce alla pace: “l’ardore della carità è il grido del cuore. Se sempre permane la carità, tu sempre gridi; se sempre gridi, sempre desideri; e se desideri, ti ricordi della pace”.[64]
Esponendo alla nobile Proba, dopo il 411, come si debba pregare, Agostino indica nella preghiera un esercizio di preparazione all’acquisizione del premio promesso:
Il Signore Dio nostro non desidera che noi gli facciamo conoscere qual è il nostro volere ch’egli non può non conoscere, ma desidera che nelle preghiere si eserciti il nostro desiderio, onde diventiamo capaci di prendere ciò che prepara di darci. Questo bene è assai grande, ma noi siamo piccoli e angusti per accoglierlo. Perciò ci vien detto: Allargate il cuore, per non mettervi a portare il giogo con gli infedeli. Con tanto maggiore capacità riceveremo quel bene molto grande, che occhio non ha veduto perché non è colore, orecchio non ha udito perché non è suono, né è entrato nel cuore dell’uomo, perché tocca al cuore dell’uomo elevarsi fino ad esso, con quanto maggior fede crediamo ad esso, con quanto maggiore fermezza speriamo in esso, con quanto maggiore ardore lo desideriamo[65].
Voce della carità e della speranza, la preghiera rende capaci di ricevere il bene della salvezza. Tutto l’essere umano, nella sua interezza, deve perciò esservi impegnato, non solo la voce o i gesti, che, come già si è accennato, sono anzi limitati nel tempo; ma tutta la vita deve essere un’unica preghiera ininterrotta[66]. Nella riflessione agostiniana, la totalità dell’individuo dev’essere animata dalla fede, dalla speranza e dalla carità, di cui la preghiera è naturale conseguenza ed espressione. L’azione malvagia, il peccato, il cedere alla concupiscenza sregolata sono dimenticanza delle tre virtù e silenzio della preghiera – e segnano così il termine della tensione che conduceva verso Dio, vita assoluta e infinita, e l’inizio della discesa verso il nulla, cui il diavolo intende condannare l’individuo. Il coltivare invece la temperanza, moderando la concupiscenza, indica invece il rianimarsi delle tre virtù e trasforma ogni azione in preghiera: così il mangiare e il bere con parsimonia e temperanza, con l’anima rivolta a Dio, è salmodia; e ogni buona opera è preghiera. Nella riflessione agostiniana, secondo quel movimento verso l’interiorità già più volte ricordato, il valore etico dell’azione non si ricava dal gesto esteriore, ma si ritrova nella sua motivazione profonda: purché non sia gesto proibito da Dio o contrario ai precetti, l’azione in sé sembra diventare qui indifferente, perché l’intenzione, nutrita delle tre virtù di fede, speranza e carità, le dà il suo valore.
Fede, speranza, carità si rincorrono dunque nel testo agostiniano, non come qualità morali raggiunte in modo definitivo, ma come virtù da coltivare con attenzione e passione, in continua tensione agonica. Il combattere per l’una nutra le altre, la cui presenza a sua volta permette a quella di crescere.
Nel De agone christiano Agostino traccia, per il cristiano non esperto nella lingua latina, un percorso per il quale la comprensione emerge dall’abbandonarsi totalmente alla fede, così che guidi le azioni e regoli i costumi. In questo percorso, concentrarsi su Cristo nella fede significa anche liberarsi da ciò che rende il suo messaggio facile e logico, addomesticandolo alle aspettative umane. La metafora del nutrimento nel capitolo finale indica la necessità di aprirsi alla semplicità della fede, finché non si sia cresciuti abbastanza da avvicinarsi alla comprensione di verità più profonde. I capitoli dal quattordici al trentadue, con la loro particolare struttura, indicano la strada dell’umiltà nella fede, e insieme vi conducono il lettore/uditore del testo: ognuno di essi, infatti, muove da un’interpretazione parziale, considerata erronea ed eretica, di un mistero di fede; a questa segue una risposta costruita sulla base della Scrittura e della ragione, tesa a mostrare come la verità di fede sopravanzi i limiti dell’interpretazione addomesticata degli “eretici”.
Si consideri, per esempio, il passo di De agone christiano 26, 28, in cui si interpreta l’immagine di Gesù seduto “alla destra del Padre”. Il paragrafo si apre con l’espressione: “Non dobbiamo ascoltare”, che introduce, in questa sezione del testo, le posizioni parziali degli eretici. Segue l’interpretazione che Agostino intende avversare: “Non dobbiamo ascoltare coloro che dicono che il Figlio non siede alla destra del Padre. Dicono: forse che Dio Padre ha il lato destro e sinistro come i corpi?”. La posizione erronea è quindi mostrata nella sua apparente razionalità: gli eretici non errano per ignoranza, anzi utilizzano in modo rigoroso e verosimile lo strumento affilato della ragione. Il vescovo d’Ippona si dice dapprima d’accordo con la loro posizione – sostenere che Dio, che è infinito nel tempo e nello spazio e la cui natura è spirituale, abbia un fianco destro e un sinistro, sarebbe assurdo. Subito dopo, però, egli mostra quanto sia limitata la prospettiva qui si espressa, che, intendendo la Scrittura alla lettera e contrapponendole in modo diretto il pensiero razionale, ne dimentica il discorso simbolico. E dunque:
La destra del Padre è la perpetua felicità che è promessa ai santi, come la sinistra di Lui assai giustamente è detta la miseria perpetua che è inflitta agli empi, in modo che si capisce che in Dio stesso non c’è la destra e la sinistra, ma nelle creature, nel modo come abbiamo detto. Così anche il corpo di Cristo, che è la Chiesa, dovrà essere nella stessa destra cioè nella stessa beatitudine, come dice l’Apostolo, in quanto Egli risuscitò anche noi e ci fece sedere insieme con Lui nei cieli. Sebbene il nostro corpo non sia ancora lì, tuttavia la nostra speranza è già di là. Perciò anche lo stesso Signore dopo la risurrezione comandò ai discepoli, che trovò mentre pescavano, di gettare le reti nella parte destra. Fatto ciò, presero pesci che erano tutti grandi, significando così i giusti, ai quali è promessa la destra (la felicità). Ciò significa quello che anche disse nel giudizio, che gli agnelli li avrebbe posti alla sua destra, i capretti invece alla sua sinistra.
La discussione mostra il metodo agostiniano, che invita il lettore a non fondarsi solo sulla limitata e ristretta capacità della mente umana. Il cristiano è invece invitato ad abbandonarsi con fede alla verità rivelata, tenendola salda per aprirsi a una comprensione che, accettandola nella sua complessità, ne sveli il senso. Negare l’errore diventa così anche un modo per avvicinarsi all’indicibile verità senza i limiti imposti da quel linguaggio positivo che, nel tentativo di esprimere l’eterno, si scopre limitato – secondo un percorso che verrà ripreso dalla grande teologia negativa dei secoli successivi.
Il percorso tracciato nel De agone christiano muove dall’umiltà, che fa la sua comparsa fin dall’inizio del trattato, in quell’abbassarsi di Cristo ad assumere la natura umana, che fonda per ogni uomo in lui battezzato la possibilità della lotta contro il male. Tale umiltà si rivela anche unico rimedio alla superbia, a quel volersi e vedersi al centro del mondo che già caratterizzava i membri del clero a proposito dei quali, all’inizio della propria carriera ecclesiastica, Agostino aveva scritto al vescovo Valerio. L’umiltà diventa il presupposto della fede – la comprensione della propria limitatezza, e della necessità di un aiuto e di un sostegno, conduce ad accettare il messaggio rivelato nella predicazione del Vangelo trasmesso dalla Chiesa. Agostino questo lo aveva vissuto sulla propria pelle, quando, ancora giovane, aveva compiuto il lungo cammino che lo aveva condotto alla conversione; e, dinnanzi alle Scritture, gonfio del proprio orgoglio, ne aveva scartato il messaggio perché non corrispondente alle sue aspettative:
[…] mi proposi di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture, per vedere come fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l’ingresso o piegare il collo ai suoi passi. Infatti i miei sentimenti, allorché le affrontai, non furono quali ora che parlo. Ebbi piuttosto l’impressione di un’opera indegna del paragone con la maestà tulliana. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi. Quell’opera è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande[67].
Ora, vescovo e pastore d’anime, Agostino fa tesoro della propria esperienza: e indica ai fedeli e ai sacerdoti a lui affidati l’importanza dell’abbandono della superbia e del rivestirsi dell’umiltà secondo il modello di Cristo, così da abbracciarne per fede il messaggio: solo ponendo al centro della propria esistenza, non la propria limitata comprensione, ma il Cristo, può il cristiano giungere infine alla salvezza promessagli.
Opere citate
Tutte le opere di Sant’Agostino citate o menzionate del testo sono tratte da:
- Agostino, Opera omnia, Società Editrice Città Nuova, Roma: 1965-2007.
Per il commento al testo paolino della Lettera agli Efesini, si è fatto riferimento a:
- S. Williamson, Ephesians (Catholic Commentary on Sacred Scripture), Baker Academics 2009.
[1] Agostino, Lettere, 22, 1, 1-3.
[2] Ivi, 1, 4-6, passim.
[3] Ivi, 2, 7. Cfr. Agostino, De agone christiano, 1, 1.
[4] L. Manca, Introduzione a Agostino, Il combattimento cristiano, Città Nuova, Roma: 2001, p. 54.
[5] Agostino, Ritrattazioni, 2,3, 30.
[6] L. Manca, Introduzione a Agostino, Il combattimento cristiano, Città Nuova, Roma: 2001, p. 53.
[7] Ivi, p. 55.
[8] Cfr 2Tm 4, 7-8.
[9] Cfr 1 Tm 6, 11-12.
[10] Agostino, De agone christiano, 3, 3.
[11] Nei vangeli, Gesù è ritratto in costante lotta con gli spiriti del male, che nel corso del suo ministero spesso esorcizza. Si consideri, per esempio, l’episodio delle tentazioni diaboliche di Cristo nel deserto, in Mt 4, 1-11, in Mc 1, 12-13 e in Lc 4, 1-13; o si pensi ai molti esorcismi narrati nei testi evangelici – p.e. quello in Lc 4, 31-37; o nello stesso capitolo, al v. 41.
[12] Gc 4, 7.
[13] 1Pt 5, 8-9.
[14] Williamson 2009, p. 189.
[15] Ef 6, 12.
[16] Agostino, De agone christiano, 1, 1: “Corona victoriae non promittitur nisi certantibus”.
[17] De agone cristiano 1, 1.
[18] Agostino, De agone christiano 1, 1.
[19] Cfr. Agostino, Confessioni, 4, 6, 11; 13, 7, 8. 9, 10.
[20] Agostino, De agone christiano 1, 1.
[21] Ivi, 2,2.
[22] Ibidem.
[23] Agostino, Confessioni, 3, 7, 10.
[24] Agostino, De agone christiano, 2, 2.
[25] Ivi, 7, 8.
[26] Ivi, 2, 2.
[27] Ivi, 6,6.
[28] Ivi, 7,7.
[29] Si consideri a questo proposito quanto Agostino scrive in Confessioni 4, 14, 23: “La vanità mi portava fuori strada, ogni vento mi spingeva or qua or là […] Ecco qual è la condizione di un’anima inferma, non ancora aderente alle solide basi della verità. Secondo che spira l’aura delle parole dal petto di ci sentenzia, essa è trasportata e spinta, è torta e ritorta, e le si offusca la luce, non scorge la verità che, ecco, ci sta davanti”. Non si deve poi dimenticare l’etimologia della parola latina “vanitas”, da ricondurre a “vanus”, spazio vuoto.
[30] Cfr. Agostino, Confessioni 10, 35, 54.
[31] Agostino, De vera reglione, 39, 72.
[32] Ivi, 7, 8.
[33] Cfr. Fil 4, 13.
[34] Cfr. Conf., 1, 1-2.
[35] Rm 13, 13.
[36] Conf. 8, 12, 29.
[37] Williamson 2009, p. 189. Cfr. anche Ef 13, 14; 4, 15.24.
[38] Ibidem.
[39] De agone christiano 13, 14.
[40] Ivi 11, 12.
[41] Ivi 33, 35.
[42] Ivi, 20, 22.
[43] De catechizandis rudibus 18, 29.
[44] De agone christiano 26, 28.
[45] Ivi 10, 11.
[46] Ibidem.
[47] Ivi 7, 7.
[48] Ibidem.
[49] Williamson 2009, pp. 194-195.
[50] Agostino, De catechizandis rudibus, 14, 22.
[51] Ivi, 12, 17.
[52] Ivi, 14, 17-22, passim.
[53] Ivi, 10, 14.
[54] 2Cor 9, 7: “Dio ama chi dona con gioia”.
[55] Ef 6, 16.
[56] De agone christiano 13, 14.
[57] Ivi 33, 35.
[58] Williamson 2009, p. 196.
[59] De agone christiano 2, 2.
[60] Secondo l’ipotesi dello Zarb, secondo una datazione che sembra plausibile, il Discorso sul Salmo 37 sarebbe da far risalire al 395. Cfr http://www.augustinus.it/italiano/esposizioni_salmi/tavola_cronologica.htm disponibile online il21/08/2014.
[61] Agostino, Discorsi sui Salmi, 37, 14.
[62] Agostino, Confessioni, 1, 1.
[63] Agostino, Discorsi sui Salmi, 37, 14.
[64] Ibidem.
[65] Agostino, Lettere, 130, 8, 17.
[66] Agostino, Discorsi sui Salmi, 146, 2.
[67] Agostino, Confessioni, 3, 5, 9.