Cari fratelli,
a tutti voi un fraterno saluto ed il più cordiale benvenuto in questa casa che dovete considerare vostra, e in questa città di Roma che ha un significato così profondo per tutti i cristiani. Recentemente, la scorsa domenica, 8 giugno, in occasione della celebrazione della Pentecoste, papa Francesco si è riunito con il presidente di Israele, Simon Peres ed il presidente della Palestina, Abu Mazen, nei giardini del Vaticano, per pregare per la pace in Oriente.
Permettetemi che il mio primo invito sia quello di pregare per tutto l’Ordine, ricordando in modo particolare le situazioni di conflitto e di persecuzione che stanno vivendo alcune comunità e confratelli dell’Africa. Senza dimenticare altri luoghi dove è urgente la riconciliazione e l’unità. Quando vediamo che le grandi potenze sono capaci di sedersi per dialogare e costruire ponti per costruire la pace, dovremmo confessare che siamo lontani, a volte, nel mettere in pratica tutte le nostre possibilità per rendere possibile il miracolo della fraternità. Pregare non è rinunciare alle nostre responsabilità, ma invocare Dio come un atto supremo di responsabilità e di logica perché la fede, possiamo dire, è il centro della nostra vita.
Pregare per la pace, come anche pregare per le nostre comunità, non è un atto di volontarismo, ma un impegno che ci porta a costruire giorno dopo giorno il sogno di Sant’ Agostino e che troviamo espresso nella nostra Regola: “Prima di tutto, vivete unanimi nella casa e abbiate una sola anima ed un sol cuore (At 4,32) protesi verso Dio” (Regola I,3).
Come già sapete, questo incontro, vuole completare il programma per il sessennio 2013-2019 e che è iniziato nelle sessioni capitolari dello scorso settembre. Il Consiglio generale si è riunito in diverse occasioni, anche le Commissioni internazionali lo hanno fatto ed è arrivato il momento di mettere a
frutto la riflessione e la ricchezza dei suggerimenti ricevuti. Il fatto che si sia voluto ampliare l’incontro del Consiglio generale per elaborare questa programmazione, vuole essere un segno di collegialità all’insegna di una Chiesa sinodale nella quale i membri del Popolo di Dio camminiamo insieme.
In questo incontro sinodale, dove tutti siamo ascoltati in ciò che ci compete, tutti siamo chiamati all’unità e alla comunione che è un dono dello Spirito Santo. E’ anche in questa esperienza sinodale, dove le chiese delle periferie potranno far sentire la loro voce al centro e, nel contesto del nostro Ordine, le circoscrizioni più lontane o più giovani fanno udire la loro voce e trasmettno quello spirito più fresco alle circoscrizioni che sperimentano il peso della storia e gli effetti della loro immersione in un mondo indifferente alla dimensione religiosa.
Il flusso della comunicazione reciproca e fraterna, garantisce che nei prossimi giorni ci possiamo ritrovare sorpresi da una enorme creatività. “Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo, si aprono nuovi cammini, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale” (Evangelii gaudium, 11).
Dobbiamo fare nostro il proposito della conferenza Aparecida (2007) che raccoglie papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium: fare il passaggio “da una pastorale di pura conservazione ad una pastorale decisamente missionaria” (Evangelii gaudium, 15). Questa trasformazione missionaria della Chiesa passa, necessariamente, dal rinnovamento spirituale personale e comunitario e dalla realizzazione e conversione pastorale delle nostre opere. Due grandi mete che bisogna sempre tener presenti, alla luce del nostro carisma agostiniano e concretizzare in obiettivi ben definiti. Già da adesso dovremmo elaborare insieme non un documento di sopravvivenza, ma segnare alcuni passi che possano orientare la nostra vita nel sessennio che abbiamo iniziato nel settembre 2013. Uno sforzo più spirituale che organizzativo perché si tratta di ricomporre il tessuto teologico che fondamenta la sequela di Gesù, l’unico che giustifica e sostiene qualsiasi modello di vita religiosa.
La vita religiosa non ha il monopolio né della sequela di Gesù né dello Spirito di Gesù, però è chiamata ad essere responsabile perché non venga spento lo Spirito nella Chiesa che deve ricordarle costantemente la sua natura carismatica. Tornare a riflettere sul proprio carisma, oltre a costituire un mezzo di forza del nostro essere, ci fa ricordare che l’identità carismatica della vita religiosa non esclude la dimensione del servizio ministeriale, però comporta il preferire certi servizi e ministeri nella Chiesa e nella società. Ciò che è carismatico, per essere al tempo stesso ministeriale, porta alla missione.
Un elemento portante della vita agostiniana, è la vita comunitaria, come elemento creatore di fraternità e segno esplicito di un modo diverso di essere e stare nella Chiesa e nel mondo. Sant’Agostino fa riferimento alle origini del cristianesimo e fissa lo sguardo ai primi seguaci di Gesù che abitavano a Gerusalemme (At IV, 32-37). Da quel gruppo Sant’Agostino realizzò il suo modello monastico (Discorso 356,1) ed il ricordo della primitiva comunità sarà il modello ideale che gli servirà per iniziare l’esperienza di comunità che darà significato all’attualizzazione di ciò che è essenziale della vita cristiana: l’amore fraterno.
La Chiesa è essenzialmente mistero di comunione. Non perdiamo di vista che la vita religiosa, particolarmente quella agostiniana, perché la sua spiritualità si nutre dell’ecclesiologia di Sant’Agostino, si basa sulla comunione con altre forme di vita e, pertanto, siamo chiamati ad essere esperti in comunione ecclesiale, segni di dialogo e di fraternità tra i popoli e le culture. Fomentare lo spirito di comunione in un mondo che non smette di capirsi, che abbatte muri e, allo stesso tempo, alza barricate e segna nuove frontiere, che è più propizio alla discordia che alla comprensione.
Il campo di prova del nostro spirito di comunione è la comunità, il senso vivo di appartenenza alla Chiesa, il dialogo intercongregazionale e la collaborazione con i laici. Come facevano i primi cristiani e che Sant’Agostino ricorda nella sua Regola, tutto mettiamo in comune; non dobbiamo sentirci padroni della Chiesa, l’ecclesiologia di comunione passa attraverso una corresponsabilità.
La forza che hanno i valori del Regno di Dio in una comunità misura, come nessun altro termometro, la sua qualità umana e apostolica. Vi ricordo,
fratelli, e ricordiamocelo reciprocamente, che l’animazione delle comunità esige oggi più vicinanza ed un accompagnamento più diretto che nel tempo passato. Per diverse ragioni che tutti conosciamo. C’è un certo numero di persone anziane di età nelle quali a volte si assommano lo scoraggiamento dell’età e della malattia. Ci sono altre che portano sulle loro spalle responsabilità e lavori che rischiano di compromettere la salute e, in alcune occasioni, debilitano il senso religioso della vita e del lavoro. Infine, il gruppo più piccolo, numericamente parlando, lo formano i giovani.
L’unità dei cuori è il fine primario che propone Sant’Agostino (Regola I), però questo amore verso il prossimo ha la sua traduzione nell’amore alle cose comuni come forma di liberazione dall’egoismo che isola ed impoverisce. La comunità è il campo di sperimentazione della nostra unione al Corpo di Cristo, alla Chiesa. Gli interessi della comunità, afferma Sant’Agostino, sono quelli di Cristo (Commento al salmo 105, 34).
Questo ideale comunitario che definisce gli agostiniani soffre oggi l’opposizione di una cultura segnata dall’individualismo ed il primato degli interessi particolari. L’attività apostolica ha prevalso su quella contemplativa e testimonianza della nostra vita. Ed in questo modo l’azione ha ricoperto le dimensioni essenziali e irrinunciabili come la preghiera, la celebrazione della fede, la testimonianza della trascendenza. Tutto ciò ci ha portato a valorizzare il ministero con criteri di efficacia apostolica ed anche di risorse economiche. Così si è giunti ad una interpretazione utilitaristica e funzionale di quello che siamo e facciamo, ed urge alla vita religiosa recuperare ciò che più gli appartiene, la sua ispirazione originale, ciò che fa di essa una forma caratteristica di vita cristiana differente. Il recupero dell’identità carismatica non esclude la missione perché “tutto il rinnovamento in seno alla Chiesa deve tendere alla missione come obiettivo per non cadere in preda ad una introversione ecclesiale” (Evangelii gaudium, 27).
E’ giunto il momento di domandarci se le nostre comunità sono fuochi di spiritualità, di vita animata dallo Spirito, spazi di ricerca e di incontro con Dio, luoghi di concordia e di umanità, dove trova la sua dimora il Signore (cf. Commento al Salmo 67, 7). La risposta a questa importante domanda non si deve supporre nel fare una inchiesta attorno a noi per ricavare l’opinione di
coloro che ci conoscono, ma una autocritica che ci porti a misurare il grado di comunione fraterna mediante l’amore reciproco di quanti formano la comunità.
Con il suo abituale realismo, Sant’Agostino avverte che “Il nemico ha disperso in tutte le parti malati ipocriti con abito di monaci… Tutti chiedono, tutti vogliono i benefici della propria povertà retribuita o il prezzo di una santità finta” (Il lavoro dei monaci XXVIII 36). Sono coloro che intendono la comunità come una stazione di servizi che deve soddisfare tutte le necessità. A parte queste debolezze umane, senza alcun dubbio, Sant’Agostino sottolinea che la fiducia e l’amore devono prevalere sul sospetto e la distanza: “Io sempre penso bene dei miei fratelli ed ho piena fiducia in essi (Sermone 355, 2,2).
Forse questo importante tema della comunità, dei priori locali e la loro funzione di guida e dei mezzi ordinari di rinnovamento come i capitoli locali e i capitoli di rinnovamento, devono essere oggetto della nostra riflessione nelle prossime giornate. Pensare che poiché le nostre comunità sono formate da persone adulte, non sia necessaria qualsiasi forma di autorità e animazione, è sia ingenuo che temerario. La funzione che le nostre Costituzioni concedono ai priori si esplicano verso due direzioni: materiale, “distribuire ad ognuno secondo le proprie necessità” (Regola I, 4), e spirituale, “deve rendere conto di tutti davanti a Dio” (Regola VII, 46). L’autorità del superiore è di carità paterna (Risposta alla lettera di Parmeniano III, 16), di modo che “desideri più di essere amato da voi che temuto” (Regola VII, 46).
Se l’obbedienza si intende come gesto di amore a Dio, è fonte di gioia: “Sembra che tutta la servitù dovrebbe essere amara, poi vediamo che, in generale, gli schiavi obbediscono mormorando. Però non abbiate paura di servire Dio; in lui non si piange, né si mormora, né si dispera” (Commento al salmo 99,7). Le nostre Costituzioni definiscono il priore locale come uomo “di obbedienza e di fedeltà alla volontà di Dio… modello del gregge che gli è stato affidato, conoscitore dei diritti e obblighi di tutta la comunità” (CC. 304).
L’Unione dei Superiori Generali (USG) ha celebrato la sua 81ª Assemblea a Roma, dal 22 al 25 di maggio 2013. Il tema di studio era: “La leadership nella vita religiosa 50 anni dopo il Vaticano II”. Nessuno ignora che papa Francesco ha stabilito una nuova forma di leadership nella Chiesa, il
quale si appoggia sulla credibilità dello spirito evangelico, la vicinanza, la semplicità, la misericordia.
Ci troviamo di fronte alla necessità di una leadership sia personale che istituzionale che si estende oltre le strutture ecclesiali per raggiungere le periferie geografiche ed esistenziali per provocare l’incontro con tutti i popoli e tutte le culture. E’ la Chiesa in uscita di cui parla papa Francesco (Evangelii gaudium, 20).
Un secondo tema che non può essere assente nel nostro programma è l’urgenza di una promozione, selezione e formazione di nuove vocazioni per la vita religiosa agostiniana. In occasione della 51 Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni (11 maggio 2014), papa Francesco ricordava nel suo messaggio: “Vi farà bene partecipare con fiducia ad un cammino comunitario, che sappia risvegliare in voi e intorno a voi le migliori energie. La vocazione è un frutto che matura nel campo ben coltivato dell’amore reciproco che si fa servizio reciproco, nel contesto di una autentica vita ecclesiale. Nessuna vocazione nasce per se stessa o vive per se stessa. La vocazione sorge dal cuore di Dio e germoglia nella terra buona del popolo fedele, nell’esperienza dell’amore fraterno. Forse Gesù non ha detto: “In questo conosceranno tutti che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri (Gv 13,35)?”
Il papa sottolinea l’importanza di partecipare con fiducia ad un cammino comunitario che sappia risvegliare in noi e intorno a noi le migliori energie. Quali altre energie possono superare l’amore reciproco, l’ambiente di una comunità dove si respiri un clima agostiniano di amicizia e cordialità e una vita spirituale che garantisca l’umanità più piena?
Non dimentichiamo che nella nostra preoccupazione per le vocazioni, la prima cura ed il primo accompagnamento, in un esercizio di reciprocità, è la nostra stessa vocazione. Quella di coloro che già viviamo in comunità. Dalla debolezza della nostra vocazione, dalla mancanza di integrazione personale e da una felicità molto tenue, non può che emergere se non il sospetto di una vita routinaria e chiusa che limita lo spazio alla sorpresa, alla creatività e al mistero.
E insieme alla stima della vocazione di coloro che già abbiamo consacrato la nostra vita a Dio, il compito urgente è quello di suscitare, accogliere e accompagnare nuove vocazioni. Nell’Ordine, l’indice di ricambio è
molto basso e, nei prossimi anni, la statistica generale si abbasserà in modo notevole.
Nella promozione vocazionale non possono mancare né le risorse umane e né quelle materiali. Mancano uomini-annunciatori della vita religiosa agostiniana e strutture di accoglienza e di formazione, dotate di mezzi necessari così come indicano i documenti della Chiesa, le nostre Costituzioni e la Ratio Institutionis. Questa priorità sarà possibile cambiarla in realtà solo attraverso collaborazioni intercircoscrizionali. La precarietà dei numeri non può significare un annullamento della vita religiosa e, come indica con precisione papa Francesco, “Non si possono riempire i seminari con qualsiasi tipo di motivazioni, e ancora meno se queste si relazionano con insicurezze affettive, ricerche di forme di potere, glorie umane o benessere economico” (Evangelii gaudium, 107).
E’ necessario rivedere la mappa delle case di formazione e le équipe di formatori con le necessità dell’Ordine oggi nella sua ampia geografia. Si impone una grande consapevolezza nell’esprimere le diverse esigenze al momento di aprire e riconoscere come tale una casa di formazione. Nel campo della formazione, i progetti comuni possono essere la migliore scuola di spirito agostiniano e la garanzia di una dimensione biblica, teologica e pastorale consistenti nei futuri agostiniani. La chiamata allo studio a cui si riferisce il Documento del CGI’98, dovrebbe trovare nelle aree della formazione iniziale e della formazione permanente una accoglienza immediata e responsabile.
La vita religiosa deve pianificare, con urgenza, una azione pastorale adattata alla gioventù del nostro tempo, con una chiara incidenza nella pastorale vocazionale. Non possiamo vivere la ricchezza della nostra spiritualità agostiniana in una certa clandestinità. Nessuno ama e né si compromette con ciò che non conosce. Rafforzare la caratteristica agostiniana, fraterna, evangelizzatrice e aperta delle nostre comunità già è un riferimento vocazionale molto chiaro.
Infine, vorrei fare un riferimento esplicito alla situazione economica mondiale e al nostro impegno per quanto riguarda la povertà. Non è che la crisi internazionale sia la ragione del nostro vincolo con la povertà evangelica, però oggi è più necessaria una testimonianza chiara di sobrietà e di solidarietà. Si
parla oggi di nuove forme di povertà che comprendono sia le necessità materiali che quelle spirituali. Un buon test per valutare il grado di fedeltà evangelico di una comunità è la sua sensibilità per i poveri. Sono ogni giorno i più dimenticati della società, considerati non produttivi né consumatori qualificati. Noi, a partire dalle nostre sicurezze, pensiamo a volte che sono le istituzioni politiche quelle responsabili per rimediare a questi problemi che attentano la dignità umana, e dimentichiamo che gli esclusi sono i preferiti del Regno. L’alleanza con i settori di potere suppone, in pratica, una censura del Vangelo per giustificare un genere di vita dove non si rende visibile una opzione affettiva e compromessa con i bisognosi e le vittime dei sistemi economici
attuali.
Alla luce del nostro impegno con la povertà siamo chiamati a rivedere la funzione delle nostre opere, l’uso del nostro patrimonio, il destino dei nostri beni, la sobrietà della vita comunitaria. Non si può pensare che la povertà sia una causa meramente politica e secolare, quando nella Chiesa è una questione fondamentalmente teologica, perché la giustizia e i diritti umani fanno parte del nucleo del Vangelo.
Non siamo alla presenza di azioni precise a favore degli emigranti o minoranza di emarginati, ma è necessario sottolineare che la povertà è una componente essenziale, pertanto irrinunciabile, della vita religiosa. Se “tutti i cristiani siamo chiamati ad aver cura dei più deboli della terra” (Evangelii gaudium, 209), molto di più i religiosi, chiamati a vivere “come coloro che non hanno nulla e che tutto possiedono (Il lavoro dei monaci, XXV, 32).
Nella cultura neoliberale nella quale viviamo, sembra spropositato predicare il valore della povertà perché si proclama l’ideale della ricchezza e per ampliare il consumo si creano necessità. Optare per la povertà è un segno visibile di contraddizione non sempre comprensibile. La prova della validità dei valori evangelici è, precisamente, la sua incomprensibilità che conferisce alla povertà un significato profetico. Molte delle crisi profonde che ha sofferto la vita religiosa sono state associate all’abbandono della povertà evangelica.
Quando parliamo di questo tema, il consenso teorico è chiaro, però non ci sembra che abbondiamo di chiarificazioni teologiche e manchiamo di audacia nell’agire? E’ possibile la vita religiosa al margine della fede in un Dio
provvidente? Recuperare una certa austerità di vita sia nell’ambito personale come in quello comunitario non è unicamente una pratica ascetica ed una testimonianza di moderazione, ma una forma di trasmettere il messaggio del primato dello Spirito, un modo di vivere l’essenziale.
Questo tema non si può convertire in argomento discorsivo, ma ci sono delle ramificazioni concrete che indicano se esiste o no uno spirito che sostenga ogni nostro gesto. Il lavoro, anche se sembra paradossale, è una forma di povertà, perché è un vincolo di comunione con la società umana e con la comunità religiosa, una offerta delle proprie attitudini nel beneficio del bene comune.
Senza lavoro è difficile che si possa avere solidarietà. Qui si trova la grande differenza: lavorare per poter condividere o lavorare per accumulare e rivestirsi di potere. Lavorare per condividere è una forma di carità. La credibilità della Chiesa e della vita religiosa si gioca nell’ambito della solidarietà, la gratuità e l’opzione affettiva ed effettiva per i poveri e gli emarginati. Poveri ed emarginati che abbiamo attorno alle nostre parrocchie e nelle aule delle nostre scuole.
L’amministrazione e la divisione dei nostri beni è un capitolo che esige una riflessione critica piena di carità e di realismo. Esistono ragioni per impugnare il trasferimento di beni quando esiste ritardo ed opacità nell’informazione degli aiuti ricevuti, spese non necessarie o viaggi costosi che molte volte si potrebbero evitare.
Queste tre osservazioni circa la vita comunitaria e l’importanza della leadership dei priori locali, della promozione, selezione e formazione dei candidati alla vita religiosa agostiniana e della necessità di una vita in accordo con lo spirito delle beatitudini, non vogliono precludere quello che può venir fuori nei prossimi giorni di riunione. Sicuramente sono da aggiungere altri temi che portano allo stesso porto: la missione. Siamo “agostiniani nella Chiesa per il mondo di oggi”, così era il titolo del documento del Capitolo Generale Intermedio di Villanova del 1998. La nostra missione è rendere visibile e provocare l’esperienza di Dio, trasmettere la fede nell’Assoluto, rendere visibile la pratica del Vangelo. Il fare è posteriore all’essere; gli impegni sono secondari, anche se necessari.
I lavori capitolari del settembre 2013 si sono concentrati su un tema conosciuto da tutti: L’UNITA’ DELL’ORDINE AL SERVIZIO DEL VANGELO, che era stato studiato nel Capitolo Intermedio del 2010, celebrato nelle Filippine. Questo documento invita a rileggere il primo capitolo delle nostre Costituzioni, dove ci si ricorda che la nostra identità come Ordine procede da quattro fonti costitutive: l’eredità monastica di Sant’Agostino, le radici eremitiche, i legami particolari che provengono dall’intervento della Sede Apostolica e la condizione dell’Ordine mendicante (CC 4). Quatto radici diverse che sostengono e nutrono uno stesso corpo: l’Ordine di Sant’Agostino.
Il Capitolo 2013 passerà alla storia per essere il primo che è stato inaugurato con una Eucarestia presieduta da un papa, nella Basilica dei santi Trifone e Agostino a Roma, nel mercoledì 28 agosto. Nell’omelia, il Papa Francesco sottolineò l’importanza dell’inquietudine come nota caratteristica della vita di Sant’Agostino. “Questa parola mi impressiona, disse, e mi fa riflettere. Desidererei partire da una domanda: Quale inquietudine fondamentale Agostino vive nella propria vita? O forse bisognerebbe dire ancora meglio: quali inquietudini ci invita a suscitare e tenere vive nella nostra vita questo grande uomo e santo? Ne propongo tre: l’inquietudine della ricerca spirituale, l’inquietudine dell’incontro con Dio, l’inquietudine dell’amore”.
Concludo il mio intervento perché ciò che è più importante non sono le mie parole introduttive e tantomeno gli orientamenti elaborati dal Consiglio generale o nelle riunioni delle Commissioni interprovinciali. Ciò che è più importante è che in queste prossime giornate si rafforzi il noi che delll’Ordine, qui rappresentato attraverso i Superiori maggiori. Contate sempre sull’appoggio e la disponibilità incondizionata della Curia verso di voi e tutti i membri delle vostre circoscrizioni, e il riconoscimento del vostro lavoro come “servitori nella carità” (Regola 7). Non siete stati eletti per gestire delle opere, ma per animare la vita di alcune persone e comunità religiose.
Nel parlare oggi della vita religiosa, si ripete la chiamata e l’esperienza di Dio (cf. Documento CGI’98), all’interiorità. Interiorità che, nella sua esuberante traduzione può anche formularsi come sentire Dio, fidarsi di Dio, comunicarsi con Dio, permettere a Dio che attui… Si tratta di ricordare che la vita religiosa ha un suo forte fondamento, le sue radici vive, nelle realtà della fede. Questo è
il principio animatore e generatore di vita. E queste realtà di fede sono Gesù e il suo Vangelo. Queste sono le istanze critiche, le obiezioni di coscienza di fronte ad alcuni modi, tradizioni e forme di attuare che, molte volte, nell’essere confrontate con il Vangelo, perdono significato.
Concludo invitandovi a leggere ed interpretare il paesaggio che ci sta intorno come una eloquente parabola, un ricordo delle nostre fedeltà. Le nostre fedeltà sono i nostri amori. Viviamo vicino alla Basilica di San Pietro. E’ un segno della nostra fedeltà, come agostiniani, alla Chiesa. La Piazza di San Pietro è luogo di incontro, la Basilica è preghiera, la Cappella Sistina è arte, fantasia, contemplazione. Siamo vicino all’Istituto Patristico, segno della nostra fedeltà allo studio, alla ricerca personale e comunitaria della verità. Siamo anche molto vicini alla casa delle Missionarie della Carità, fondate da Madre Teresa, segno della nostra fedeltà ai poveri. Coloro che non hanno il pane e i poveri del mondo che si muovono nell’abbondanza però senza un senso nella loro vita, vagabondi solitari del benessere, sepolti sotto il proprio egoismo. E la via, la nostra via familiare di Paolo VI, con il suo concerto di rumori e il suo traffico trepidante. Porta il nome di un papa con l’anima agostiniana. Qualcuno ha definito Paolo VI “l’Agostino del secolo XX” e noi potremmo regalare oggi a Benedetto XVI il titolo dell’ “Agostino del XXI secolo”. Uomini di intuizione, più che di sicurezze, di dialogo e di dubbio razionale. Questo variegato paesaggio così vicino, portatelo, per favore, nel vostro cuore, luogo dove si conservano le fedeltà e le cose importanti. Benvenuti a Roma e benvenuti a questa vostra
casa.