Una nuova riflessione di P. Giuseppe Scalella.
Che tristezza le nostre città, in questi giorni di emergenza virus! Basterebbe riandare a qualche giorno fa per capire quanto queste parole di Ezechiele, con le quali ho voluto aprire questo scritto, fossero anacronistiche, al di fuori del tempo. Ci apparivano impossibili e ingiuste e, certamente, non rivolte a noi. Eppure, a distanza di pochi giorni, per quello che ci sta accadendo, ci appaiono più vere che mai.
Se cerchiamo di capire che cosa c’è dietro quelle parole, non sarà impossibile capire il senso di questi nostri giorni tristi. Sì, proprio quello ci manca: il senso.
Ezechiele è uno dei profeti di Israele, vissuto nel periodo della deportazione e dell’esilio in Babilonia del popolo ebraico. Era l’anno 597 a. C., più di 2500 anni fa. Fu un’esperienza durissima per Israele, un popolo sradicato dalla propria terra e costretto a servire gente straniera. Non è stata la prima e non sarà l’ultima. I capi degli Ebrei più volte lo consulta- rono per ricevere consigli, ma poi, di fatto, non lo seguirono. Nei suoi scritti ricorre spesso una frase, come un ritornello: «Essi conosceranno che io sono il Signore».
Dio non aveva impedito la deportazione e l’esilio, e quindi l’essere sradicati dalla propria terra, perché gli israeliti si accorgessero per che cosa e per chi era fatto il loro cuore. Un Dio despota? Un Dio crudele? Tanti di noi lo pensano. Lo pensa chi non guarda il proprio cuore, chi si accontenta di sistemarsi come può in questo mondo. Lo stiamo vedendo benissimo in questi giorni, nei quali è sempre più evidente che la realtà sta dando scacco matto a tutte le nostre pretese di onnipotenza. Perfino la scienza si trova impreparata e con le spalle al muro. La realtà ci insegna Dio perché è mistero e ha una caratteristica che a noi risulta più che mai irritante: non bara. Noi sì, bariamo tante volte nella vita; lei no. È sempre lì, pronta, a dirci la verità su noi stessi. E qual’è questa verità? Che siamo fatti per l’infinito, non per sistemarci la vita. Come scrive il grande Agostino: “Ci hai fatti per te, Signore…” (Confessioni, 1,1). Eccolo, allora, il ritornello: «… conosceranno che io sono il Signore».
È questa verità, innanzitutto, che Ezechiele voleva insegnare al suo popolo, ma non fu mai ascoltato. Il non ascoltare, il far finta di niente non è uguale a zero: si paga. E Israele lo ha pagato con tutte le deportazioni, gli esili e i deserti della sua storia, fino a nostri giorni. Eppure la vita stessa grida che non siamo fatti per il deserto e la desolazione.
Non siamo fatti per morire ma per vivere. Ma non basta.
C’è un’altra verità che Ezechiele voleva insegnare al suo popolo. Come gli altri profeti che lo avevano preceduto, anche lui intravide, in una prospettiva futura, l’avvento del Messia, Gesù. E infatti, 500 anni dopo, in un piccolo villaggio della Giudea, sarebbe nato l’Emma-nuele, il Dio con noi.
Dio non si stanca mai, neppure quando gli uomini dimenticano volutamente e ripetuta- mente la verità di sè stessi, e addirittura si fa uomo, scende, si fa piccolo come un bambino, e per fare che cosa? Per ridire quella verità? Sarebbe stato troppo poco. L’ha vissuta lui, in prima persona, fino a farsi trattare come un delinquente comune e accettare, nel silenzio più assoluto, di morire appeso ad una croce, il supplizio più crudele.
E tutto questo per insegnarci che cosa? Infinitamente di più di un insegnamento: ci ha tirato fuori dal nulla, dalla disperazione che ci avrebbe inesorabilmente inghiottiti. Non lo meritavamo, ma lui lo ha fatto. E continua a farlo anche adesso, in tanti.
Allora, in questi giorni, davanti alle nostre città deserte, ci basterebbe incontrare e guardare qualcuno di loro.
Per risollevare il capo e restituire gioia e speranza alla vita.
P. Giuseppe Scalella, OSA