L’esperienza della mensa per indigenti è qualcosa che ti cambia, che espande la tua visione del mondo e apre la porta alla realtà nascosta del malessere e del disagio. Sono ormai tre anni che faccio servizio come volontario alla mensa di Padre Domenico Vittorini , e vedere ogni giorno quasi 100 persone in fila per ricevere un pasto caldo, all’inizio mi aveva lasciato sbigottito. Complice la mia poca esperienza e la mia vita trascorsa fino a quel punto in un paesino di 7.000 abitanti nella Provincia Granda. Pensavo che il problema alimentare fosse limitato, ma il mio arrivo a Bologna mi ha fatto vedere c’era qualcosa di più. La Mensa di San Giacomo non era che una delle tante mense che cercano di provvedere ai bisogni degli indigenti. Molte altre strutture hanno preferito schedare e tesserare i loro utenti per avere un controllo sull’afflusso delle persone ed essere più efficienti a discapito per dell’individuo, che non ha bisogno di una tessera per dirsi affamato. P a d r e D o m e nic o ha scelto quindi di mantenere la sua mensa senza soglia, dove non ci sono limiti al numero o all’identità delle persone, solo poche semplici regole per la convivenza civile di volontari ed utenti. Prima di tutto si richiede la puntualità. Il pranzo inizia alle due e mezza ogni giorno, dal lunedì al venerdì. All’inizio, raccontava Padre Domenico , i poveri venivano ad ogni ora, ogni giorno in un momento diverso. Il primo passo per aiutarli era cercare di portare un poco di ordine nella loro vita, un passo verso un possibile reinserimento sociale. Non poteva essere la mensa ad entrare nel vortice del disordine della loro vita, ma doveva essere l’appiglio per cercare di risollevarli. Un’altra cosa che si richiede è il rispetto reciproco, sia dei volontari, ma soprattutto tra gli utenti. Il gruppo della mensa è un gigantesco melting pot che mette in fila per un piatto di pasta persone di etnie, religioni e culture estremamente differenti. Non è sempre facile rispettarsi nella diversità, lo sperimentiamo anche tra connazionali, figuriamoci tra persone che non scelgono di stare insieme, ma si trovano alla mensa solo per una necessità comune. Possedendo poco o niente, senza una casa, un lavoro o un progetto di vita, in una società che ti misura solo in base a ci che hai, molto spesso, i poveri, trovano nella violenza, soprattutto verbale e comportamentale, l’unica strada per affermarsi. Pu capitare che una persona faccia, in questa condizione, ci che al proprio paese non poteva neanche pensare, come risponde spesso Padre Domenico, o che non avrebbe mai fatto prima. Il disagio e la difficoltà della situazione di vita in cui i poveri versano, portano allo sviluppo di numerose patologie di origine psicologica. Ai tempi di Freud la malattia del secolo era l’isteria, ma i tempi sono cambiati ed oggi vediamo aumentare a dismisura situazioni di depressone e remissività nei confronti della vita. Oggi non siamo più abituati a lottare duramente per ottenere quello che invece diamo sempre per scontato. Questa non è necessariamente una cosa negativa, ma quando ci troviamo davanti ad un problema, non siamo capaci a risolverlo, ci lasciamo vivere e non riusciamo a reagire alle difficoltà che la vita ci mette sulla nostra strada. Questo aspetto lo percepiamo chiaramente in molti utenti della mensa. In certi casi non è la povertà che rende impossibilitati a rialzarsi e ricominciare, ma è l’incapacità di rialzarsi e ricominciare a credere in se stessi che rende poveri. Questo ci pone davanti al più grande interrogativo e alla più pressante responsabilità a cui deve supplire la mensa: cosa significa aiutare davvero i poveri? Basta semplicemente metterli in fila e sfamarli o significa attivare un processo di crescita e rinascita affiancato al bisogno primario del cibo? Sicuramente la seconda ipotesi è quella che cerchiamo di realizzare, ma le difficoltà da superare sono molte, e non abbiamo li strumenti per risolverle. Per questo Padre Domenico si è fatto affiancare da un docente di psichiatria. Attraverso questa preziosa collaborazione si cerca di agevolare un recupero psicologico di chi sente la difficoltà opprimente della condizione di indigenza. Inoltre, il DSM di Bologna fornisce al Convento delle borse lavoro che aiutano con la preparazione dei pasti per la mensa, come aiuto alla riabilitazione. Un altro problema che si manifesta in modo evidente, è che l’incipit della condizione da disadattati è originaria già del paese di provenienza. Molti poveri che oggi sono a Bologna, sono partiti sì in cerca di un’opportunità, ma senza le categorie necessarie per trovare un lavoro, proprio perché non sarebbero stati in grado di trovarlo già nel paese nativo. Diceva Seneca a Lucilio: “ Animus debes mutare, non caelum ”. Non basta cambiare il luogo in cui si vive per risolvere i propri problemi. Se non riusciamo ad iniziare un processo volto ad un cambiamento della mentalità, ad un’evoluzione sostanziale, non riusciremo mai ad aiutare davvero chi ci chiede aiuto. Riusciremo soltanto a mettere delle toppe qua e là per alleviare il peso della nostra coscienza. Nella sua teorizzazione sull’antropologia dello sviluppo, Jean – Pierre Oliver de Sardan spiega come si a essenziale una collaborazione, un coinvolgimento delle persone che vengono aiutate con chi fornisce l’aiuto . Il tempo del grande e potente Occidente che sbarca nel terzo mondo portando la salvezza con gli aiuti che sono giusti per noi , che funzionano per noi , senza considerare le differenze culturali e le vere esigenze della popolazione, è finito. Oggi dobbiamo renderci conto che la globalizzazione ha portato tutte le diverse culture a mescolarsi ed incontrarsi a livello capillare. Lo vediamo anche qui nella città di Bologna. Senza considerare l’aumento nel numero, di italiani e non, dovuto in parte a questa supposta crisi economica, nel corso dei tre anni di questa mia esperienza presso la Mensa di San Giacomo , abbiamo visto la composizione del gruppo cambiare significativamente. Se all’inizio i nostri utenti erano per lo più nordafricani, italiani ed est europei, col tempo abbiamo imparato a conoscere cinesi, indiani, pakistani, afghani, centro africani, peruviani, brasiliani ed altri ancora. Dobbiamo trovare la strada giusta per aiutare tutti attraverso uno scambio, una collaborazione ed una crescita che si pu basare solo sul dialogo e il rispetto reciproco, la voglia di migliorare e la forza per farlo. L’aspetto più triste della mensa allo stato attuale, è proprio il rifiuto di questo tipo di aiuto che va oltre al piatto di minestra da parte di molti indigenti. Padre Domenico lavora costantemente per mantenere ordinata e volta all’aiuto vero la mensa da lui voluta, scontrandosi per spesso contro il muro che si è costruito attorno a coloro che si sono persi nella droga e nell’alcool, e non vogliono essere aiutati nelle comunità. Incontriamo spesso persone che non vogliono essere aiutate fino in fondo, e il nostro compito è quello di porci come esempio e trovare il modo migliore per aiutare coloro che vengono alla mensa ad uscire dalla loro condizione di indigenza e disagio psicologico.
Un volontario