Oltre 25 religiosi agostiniani, il 5 sera si sono ritrovati a Riano per iniziare l’incontro dei Priori delle Comunità Agostiniane d’Italia.
Il 6 mattina, dopo la preghiera delle lodi e la colazione, il primo appuntamento è con un tempo di riflessione dettato da Padre Giuseppe Pagano, che nel suo intervento sottolinea l’importanza del coraggio (fortezza), nel condurre la vita di comunità e presenta come modello per i priori la figura biblica di Elia (che si trova suggerita anche nella lettera per i consacrati SCRUTATE). Alla fine della riflessione, i religiosi hanno il tempo per riflettere sulla figura del profeta Elia e confrontarsi con le provocazioni di Papa Francesco che si trovano nella lettera SCRUTATE.
Si ritorna in Assemblea per la condivisione e la conoscenza reciproca della vita delle diverse comunità.
Questo lavoro occupa anche il tempo del pomeriggio.
L’incontro si concluderà con la presentazione di materiale pubblicato dalla Provincia ed in particolare dei nuovi registri della Sacrestia e l’Economato.
DOMANDE PER LA RIFLESSIONE E VERIFICA COMUNITARIA
Le provocazioni di Papa Francesco
- Rifletto sul mio ruolo di Priore
«Quando il Signore vuole darci una missione, vuole darci un lavoro, ci prepara per farlo bene», proprio «come ha preparato Elia». Ciò che è importante «non è che lui abbia incontrato il Signore» ma «tutto il percorso per arrivare alla missione che il Signore affida». E proprio «questa è la differenza fra la missione apostolica che il Signore ci dà e un compito umano, onesto, buono». Dunque «quando il Signore dà una missione, fa sempre entrare noi in un processo di purificazione, un processo di discernimento, un processo di obbedienza, un processo di preghiera». (v. il foglio che parla dell’esperienza di Elia)
- «Sono miti, umili? In quella comunità ci sono liti fra di loro per il potere, liti per l’invidia? Ci sono chiacchiere? Allora non sono sulla strada di Gesù Cristo». La pace in una comunità, infatti, è una «peculiarità tanto importante. Tanto importante perché il demonio cerca di dividerci, sempre. È il padre della divisione; con l’invidia, divide. Gesù ci fa vedere questa strada, quella della pace fra noi, dell’amore fra noi».
- È importante «avere l’abitudine di chiedere la grazia della memoria del cammino che ha fatto il popolo di Dio». La grazia anche della «memoria personale: cosa ha fatto Dio con me nella mia vita, come mi ha fatto camminare?». Bisogna saper anche «chiedere la grazia della speranza che non è ottimismo: è un’altra cosa»; «chiedere la grazia di rinnovare tutti i giorni l’alleanza con il Signore che ci ha chiamato».
- E questo «è il nostro destino: camminare nell’ottica delle promesse, certi che diventeranno realtà. È bello leggere il capitolo undicesimo della Lettera agli ebrei, dove si racconta il cammino del popolo di Dio verso le promesse: come questa gente amava tanto queste promesse e le cercava anche con il martirio. Sapeva che il Signore era fedele. La speranza non delude mai». (…) Questa è la nostra vita: credere e mettersi in cammino» come ha fatto Abramo, che ha avuto «fiducia nel Signore e ha camminato anche nei momenti difficili».
- Non perdete mai lo slancio di camminare per le strade del mondo, la consapevolezza che camminare, andare anche con passo incerto o zoppicando, è sempre meglio che stare fermi, chiusi nelle proprie domande o nelle proprie sicurezze. La passione missionaria, la gioia dell’incontro con Cristo che vi spinge a condividere con gli altri la bellezza della fede, allontana il rischio di restare bloccati nell’individualismo.
- I religiosi sono profeti. Sono coloro che hanno scelto una sequela di Gesù che imita la sua vita con l’obbedienza al Padre, la povertà, la vita di comunità, la castità. (…) Nella Chiesa i religiosi sono chiamati in particolare ad essere profeti che testimoniano come Gesù è vissuto su questa terra, e che annunciano come il Regno di Dio sarà nella sua perfezione. Mai un religioso deve rinunciare alla profezia.
- Questo è un atteggiamento cristiano: la vigilanza. La vigilanza su se stesso: cosa succede nel mio cuore? Perché dove è il mio cuore è il mio tesoro. Cosa succede lì? Dicono i Padri orientali che si deve conoscere bene se il mio cuore è in una turbolenza o il mio cuore è tranquillo. (…) Poi, cosa faccio? Cerco di capire quello che succede, ma sempre in pace. Capire in pace. Poi, torna la pace e posso fare la discussio conscientiae. Quando sono in pace, non c’è turbolenza: “Cosa è accaduto oggi nel mio cuore?”. E questo è vigilare. Vigilare non è andare alla sala di tortura, no! È guardare il cuore. Noi dobbiamo essere padroni del nostro cuore. Cosa sente il mio cuore, cosa cerca? Cosa oggi mi ha fatto felice e cosa non mi ha fatto felice?
- Grazie a Dio voi non vivete e non lavorate come individui isolati, ma come comunità: e ringraziate Dio di questo! La comunità sostiene tutto l’apostolato. A volte le comunità religiose sono attraversate da tensioni, con il rischio dell’individualismo e della dispersione, mentre c’è bisogno di comunicazione profonda e di relazioni autentiche. La forza umanizzante del Vangelo è testimoniata dalla fraternità vissuta in comunità, fatta di accoglienza, rispetto, aiuto reciproco, comprensione, cortesia, perdono e gioia.
- Siete un lievito che può produrre un pane buono per tanti, quel pane di cui c’è tanta fame: l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle delusioni, della speranza. Come chi vi ha preceduto nella vostra vocazione, potete ridare speranza ai giovani, aiutare gli anziani, aprire strade verso il futuro, diffondere l’amore in ogni luogo e in ogni situazione. Se questo non accade, se la vostra vita ordinaria manca di testimonianza e di profezia, allora, torno a ripetervi, è urgente una conversione!
- Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio.
- Nella vita consacrata si vive l’incontro tra i giovani e gli anziani, tra osservanza e profezia. Non vediamole come due realtà contrapposte! Lasciamo piuttosto che lo Spirito Santo le animi entrambe, e il segno di questo è la gioia: la gioia di osservare, di camminare in una regola di vita; e la gioia di essere guidati dallo Spirito, mai rigidi, mai chiusi, sempre aperti alla voce di Dio che parla, che apre, che conduce, che ci invita ad andare verso l’orizzonte.
ESPERIENZA DI ELIA
Elia salì sulla cima del Carmelo; gettatosi a terra, pose la sua faccia tra le ginocchia…
«Ecco, una nuvola, piccola come una mano d’uomo, sale dal mare» (1Re, 18,44)
Dalla lettera Scrutate (n. 6)
Cerchiamo luce ancora nella simbologia biblica, chiedendo ispirazione per il cammino di profezia e di esplorazione dei nuovi orizzonti della vita consacrata, che vogliamo ora considerare in questa seconda parte. La vita consacrata, infatti per sua natura, è intrinsecamente chiamata ad un servizio testimoniale che la pone come signum in Ecclesia.
Si tratta di una funzione che appartiene ad ogni cristiano, ma nella vita consacrata si caratterizza per la radicalità della sequela Christi e del primato di Dio, e insieme per la capacità di vivere la missione evangelizzatrice della Chiesa con parresia e creatività. Giustamente san Giovanni Paolo II ha ribadito che: «La testimonianza profetica […] si esprime anche con la denuncia di quanto è contrario al volere divino e con l’esplorazione di vie nuove per attuare il Vangelo nella storia, in vista del Regno di Dio».
Nella tradizione patristica il modello biblico di riferimento per la vita monastica è il profeta Elia: sia per la sua vita di solitudine e di ascesi, sia per la passione per l’alleanza e la fedeltà alla legge del Signore, sia per l’audacia nel difendere i diritti dei poveri (cf 1Re, 17-19; 21). Lo ha richiamato anche l’esortazione apostolica Vita consecrata, a sostegno della natura e funzione profetica della vita consacrata. Nella tradizione monastica il mantello che simbolicamente Elia ha lasciato cadere su Eliseo, nel momento del rapimento al cielo (cf 2Re 2,13), è interpretato come passaggio dello spirito profetico dal padre al discepolo e anche come simbolo della vita consacrata nella Chiesa, che vive di memoria e di profezia, sempre nuove.
Elia, il tisbita, appare all’improvviso nello scenario del regno del Nord, con la minaccia perentoria: In questi anni non ci sarà né rugiada, né pioggia, se non quando lo comanderò io (1Re 17,1). Manifesta così una ribellione della coscienza religiosa davanti al decadimento morale cui il popolo viene condotto dalla prepotenza della regina Gezabele e dalla ignavia del re Acab. La sentenza profetica che chiude forzatamente il cielo è sfida aperta alla funzione speciale di Baal e della schiera dei baalîm, cui venivano attribuite fecondità e fertilità, piogge e benessere. Da qui, come a grandi arcate, si tende l’azione di Elia in episodi che, più che narrare una storia, presentano momenti drammatici e di grande forza ispirativa (cf 1Re,17-19.21; 2Re 1-2).
In ogni passaggio Elia vive in progress il suo servizio profetico, conoscendo purificazioni e illuminazioni che caratterizzano il suo profilo biblico, fino al vertice dell’incontro con il passaggio di Dio nella brezza lieve e silenziosa dell’Horeb. Queste esperienze sono ispirative anche per la vita consacrata. Anch’essa deve passare dal rifugio solitario e penitente nel wadi del Cherìt (cf 1Re,17,2-7) all’incontro solidale con i poveri che lottano per la vita, come la vedova di Sarepta (cf 1Re 17,8-24); imparare dall’audacia geniale rappresentata dalla sfida del sacrificio sul Carmelo (cf 1Re 18,20-39) e dalla intercessione per il popolo rattrappito per la siccità e la cultura di morte (cf 1Re 18,41-46), fino a difendere i diritti dei poveri calpestati dai prepotenti (cf 1Re 21) e mettere in guardia contro le forme idolatriche che profanano il nome santo di Dio (cf 2Re 1).
Pagina drammatica è in particolare la depressione mortale di Elia nel deserto di Bersabea (1Re 19,1-8): ma lì Dio, offrendo pane e acqua di vita, sa trasformare con delicatezza la fuga in pellegrinaggio verso il monte Horeb (1Re 19,9). È esempio per le nostre notti oscure, che, come per Elia, precedono lo splendore della teofania nella brezza leggera (1Re 19,9-18), e preparano a nuove stagioni di fedeltà, che diventano storie di chiamate nuove (come per Eliseo: 1Re 19,19-21), ma anche infondono audacia per intervenire contro la giustizia empia (cf l’uccisione del contadino Nabot: 1Re 21,17-29). Infine ci commuove il saluto affettuoso alle comunità dei figli dei profeti (2Re 2,1-7) che prepara alla salita finale oltre il Giordano, verso il cielo nel carro di fuoco (2Re 2,8-13).
Potremmo sentirci attratti dalle gesta clamorose di Elia, dalle sue proteste furiose, dalle sue accuse dirette e audaci, fino alla contesa con Dio sull’Horeb, quando Elia giunge ad accusare il popolo di avere solo progetti distruttivi e minacciosi. Ma pensiamo che in questo momento storico, possono parlare di più a noi alcuni elementi minori, che sono come dei piccoli segni, però ispirano i nostri passi e le nostre scelte in maniera nuova in questa età contemporanea dove le tracce di Dio sembrano svanire in una desertificazione del senso religioso.
Il testo biblico offre numerosi simboli “minori”. Possiamo accennare: le scarse risorse di vita nel torrente Cherìt, con quei corvi che obbediscono a Dio portando al profeta pane e carne, in gesto di misericordia e solidarietà. La generosità, a rischio della propria vita, della vedova di Sarepta che ha solo “un pugno di farina e po’ d’olio” (1Re 17,12) e li dona al profeta affamato. L’impotenza di Elia davanti al ragazzo morto, e il suo dubbio gridato unito al suo abbraccio disperato, che la vedova interpreta in modo teologico, come rivelazione del volto di un Dio compassionevole. La lunga lotta del profeta prostrato nell’intercessione – dopo il clamoroso e un po’ teatrale scontro con i sacerdoti di Baal sul Carmelo – implorando pioggia sul popolo sfinito dalla condanna alla siccità. In un gioco di squadra fra Elia, il ragazzo che sale e scende dal crinale e Dio che è il vero signore della pioggia (e non Baal), giunge infine la risposta di una nuvoletta piccola, quanto una mano d’uomo (cf 1Re 18,41). Una risposta minuscola di Dio, che però si fa subito pioggia grande, ristoratrice per un popolo ormai allo stremo.
Egualmente risposta povera, ma efficace saranno qualche giorno dopo quella focaccia e quell’orcio d’acqua che appaiono accanto al profeta in depressione mortale nel deserto: è risorsa che dà forza per camminare “quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Horeb” (1Re 19,8). E là, nel cavo di una caverna dove Elia si ripara, e ancora freme di ribellione contro il popolo distruttore sacrilego che minaccia pure la sua vita, assisterà alla distruzione del suo immaginario di minaccia e di potenza: “Il Signore non era…” nel vento impetuoso, nel terremoto, nel fuoco, ma in una “voce di silenzio sottile” (1Re 19,12).
Una pagina sublime per la letteratura mistica, una caduta verticale in realtà per tutto il “furore sacro” del profeta: deve riconoscere la presenza di Dio oltre ogni immaginario tradizionale, che lo imprigionava. Dio è sussurro e brezza, non è prodotto del nostro bisogno di sicurezza e di successo, “non lascia traccia visibile delle sue orme” (cf Sal 77, 20), ma è presente in maniera vera ed efficace.
Elia con il suo furore e le sue emozioni stava per rovinare tutto, illudendosi di essere rimasto il solo fedele. Mentre Dio sapeva bene che c’erano altri sette mila testimoni fedeli, c’erano profeti e re pronti ad obbedirgli (1Re 19,15-19), perchè la storia di Dio non era identificabile con il fallimento del profeta depresso e irruento. La storia continua, perchè sta nelle mani di Dio, ed Elia deve vedere con occhi nuovi la realtà, lasciarsi rigenerare a speranza e fiducia da Dio stesso. Quella postura ripiegata là sul monte per implorare la pioggia, che somiglia tanto al bambino nascituro nel ventre della madre, è ripresa simbolicamente anche all’Horeb con il nascondersi nella caverna, e ora si completa con una nuova nascita del profeta, per camminare eretto e rigenerato sui sentieri misteriosi del Dio vivente.
Ai piedi del monte il popolo lottava ancora contro una vita che non era più tale, una religiosità che era profanazione dell’alleanza e nuova idolatria. Il profeta deve prende su di sé quella lotta e quella disperazione, deve “ritornare sui suoi passi” (1Re 19,15), che ora sono solo quelli di Dio, riattraversare il deserto che però ora fiorisce di senso nuovo, affinché trionfi la vita e nuovi profeti e capi servano la fedeltà all’alleanza.