Musiche dei frati agostiniani tra il crepuscolo del rinascimento e i bagliori del barocco.
Molti sono gli storici, i teorici, i grammatici che si annoverano nell’ordine agostiniano tra rinascimento e barocco. In campo musicale, solo per citarne alcuni, troviamo Lodovico Zacconi, uno dei più grandi teorici del ‘500, il cremonese Tiburzio Massaini, madrigalista tra i capiscuola della polifonia nel nord Italia, Carlo Milanuzzi, eclettico, polemico, amico di Monteverdi, (all’apparenza più musicista che frate) e Agostino Diruta che è stato, forse, tra quelli che con le proprie opere ha saputo meglio dimostrare la sua devozione all’ordine (per lunghi anni ha lavorato a fianco del fratello, ben più conosciuto di lui in quanto autore del trattato per tastiera, Il Transilvano). E poi, tra altri, ancora, Ippolito Ghezzi, Ippolito Baccusi, Girolamo Barthei, Stefano Filippini, Mario Agatea. A parte Giovanbattista degli Antonii che è stato inserito in quanto organista del Tempio di San Giacomo Maggiore in Bologna (il complesso monastico fondato per volere popolare nel 1267 è stato uno dei più importanti conventi dell’ordine), i tre autori scelti per questa antologia, Matteo Asola, Guglielmo Lipparino e Agostino Diruta, possono essere intesi come ambasciatori di diversi periodi storici e stili musicali tra fine cinquecento e primi decenni del seicento: dallo stile a cappella, al canto monodico accompagnato dal basso continuo, allo stile concertato per strumenti.
La messa da requiem di Asola, non datata, ma riferibile agli ultimi due decenni del cinquecento (se non oltre) si fa manifesto di una classicità, di un antico che si perpetua e che addirittura, con l’uso di alcune cadenze che paiono appartenere ad epoche precedenti, ci ricorda un tempo ancora più remoto, ancora più immobile. La struttura compositiva a tre voci (alto, tenore e basso – assente la luminosità della voce di Canto) e il severo alternatim gregoriano ci riportano alle caliginose atmosfere di un passato che oscurato da un ampio e cadente cappuccio, pare stanziare, senza volto, nel fondo di una cripta millenaria. La stessa scrittura a tre voci, anziché le usuali quattro o le innovative 5 e più voci dispari (per non parlare della musica monumentale dell’epoca), sembra voler riaffermare una classicità che, anche per via del testo, è alla ricerca del perdurante, del rituale e che appare più appartenente ad un’epoca senza tempo che non ai coevi clamori delle fastose composizioni veneziane e romane (atteggiamento che certamente ben si addice al tema assoluto che una messa da requiem esprime). La composizione di Asola quasi nulla ha a che fare con la dinamicità del realistico trittico a voce sola e basso continuo del perugino Agostino Diruta, che con descrizione quasi pittorica, racconta il sacrificio di un dio che, fattosi uomo, tra sputi, insulti, sangue e polvere affronta il martirio. I testi, in volgare, sebbene scritti con complesso linguaggio poetico, esprimono un’umanità fortissima, vivissima, resa ancor più realistica dal peso della croce e del dolore inflitto dalle pungenti spine o dalle umiliazioni provocate dalle offese di un’altra umanità, questa volta, nefanda. Alla staticità antica e perdurante del rituale testo liturgico si contrappone il racconto di una vicenda resa ancor più umana da sentimenti di speranza per un finale glorioso. Se nel caso della messa da morto, l’attenzione pare rivolta al superiore mondo dell’aldilà, nei mottetti a voce sola e basso continuo del Diruta, l’attenzione è totalmente rivolta ai travagli umani che, suscitando un patetico sentimento di pietà, ne chiedono piena partecipazione. Sul fare del seicento, la rappresentazione artistica, in genere, diviene più vivida e realistica e cerca di oltrepassare la retorica dell’armonia e del nitore. In musica, la polifonia, oltre che ad essere accusata di essere “zuppa di parole”, non basta più. Ci vuole una voce sola, che libera dal fardello di una promiscua comunità musicale, possa liberamente raccontare e rappresentare, seguendo più che il ritmo della musica, il ritmo delle emozioni che la musica stessa cerca di esprimere e di organizzare ed è per questo che per l’intonazione di testi liberi, come quelli di Diruta, allo stile a cappella, (che come nella messa di Asola, garbatamente si muove tra gradi per lo più congiunti, attuando una
sillabazione sobria e austera) si preferisce l’irruente instabilità della monodia a basso continuo che, come il nuovo richiedeva, è fatta di esclamazioni, salti, ornamentazioni, cromatismi, dissonanze e passaggi in agogiche battute hor languide, hor veloci (come insegnava Frescobaldi).
La Missa defunctorum tribus vocibus , che come abbiamo detto è per le voci di alto, tenore e basso, essendo sprovvista di una parte di basso di accompagnamento strumentale, può definirsi a cappella, cioè per sole voci. Tuttavia una consolidata prassi dell’epoca permetteva che un accompagnamento delle voci potesse essere eseguito da strumenti accordali (preferibilmente, ma non in modo esclusivo, dall’organo). Diverse intavolature di liuto e cembalo, sono state poste a corredo di composizioni a più voci, a cappella. Si osservino le varie intavolature di liuto a sostegno di canzonette di diversi autori tardo rinascimentali (Orazio Vecchi, Alessandro Orologio, Giovanfrancesco Anerio, Gasparo Fiorino) e si pensi anche alle eleganti raccolte degli anni ottanta e novanta di Simone Verovio. In queste pregevoli opere a stampa (tra i primi intagli su rame) a fianco della pagina contenente le tre o quattro voci di canto c’è quella delle intavolature per liuto e cembalo (pagine tra l’altro estremamente utili per comprendere meglio l’uso delle cosiddette chiavette e per analizzare le tecniche di annotazione delle parti nei due diversi strumenti accordali). A giustificazione poi di quanto il liuto potesse essere utilizzato anche in funzione liturgica, abbiamo l’intavolatura della Messa di Antonio Fevino sopra l’Ave Maria che il reverendo Melchiorre de Barberis realizzerà nel 1546. A testimonianza di quanto l’usanza di sottoporre un accompagnamento strumentale a brani a cappella fosse praticata possiamo notare anche gli aggiornamenti alle partiture che seguirono all’invenzione del basso continuo. Ad esempio, un brano a 5 voci di Monteverdi T’amo mia vita tratto da Il Quinto Libro dei Madrigali del 1605 fu incluso da Aquilino Coppini nella raccolta di travestimenti spirituali di madrigali di vari autori, pubblicata nel 1607. Coppini, in questo caso, semplicemente implementa la linea di canto del Basso di note del basso continuo, rinominandola “Basso e Basso Continuo”. Nella stessa raccolta è interessante anche il caso del brano a cinque voci, senza linea di basso, Apprestateci fede di Adriano Banchieri tratto da Il Zabaione Musicale del 1603 che viene riproposto tale e quale da Coppini col titolo di Confitenimi Deo. Lo stesso brano verrà riutilizzato dallo stesso Banchieri per iTrattenimenti da Villa, nel 1630, questa volta però con l’ aggiunta una linea di basso continuo.
Le otto composizioni strumentali fanno parte dei Sacri concerti a una, due, tre et quattro voci […] et alcune sonate à due e tre voci di F. Guglielmo Lipparino bolognese con il suo basso continuo, Venezia, 1635. Queste, in probabile funzione liturgica, sono intitolate ad altrettante notabili famiglie bolognesi, alcune delle quali avevano il giuspatronato di alcune cappelle nel Tempio di San Giacomo Maggiore, annesso al convento dei monaci agostiniani bolognesi, dove il maestro, in fuga dalla terribile pestilenza che negli anni trenta afflisse il nord Italia, trovò rifugiò. Cinque sonate sono a 2 voci e tre a 3 voci. Sono scritte per violino (strumento novità del periodo), violone e basso continuo. Le composizioni non sono nominalmente articolate in movimenti; alcune includono delle digressioni in tempo ternario e altre fanno riferimento ai popolari temi di Ruggero e di Bergamasca. Molte di queste composizioni (le uniche strumentali conosciute del Lipparino) sebbene incluse in una raccolta della metà degli anni trenta, esordiscono con il caratteristico ritmo iniziale delle cinquecentesche canzoni alla francese e, in vari passaggi delle otto composizioni, possiamo identificare stilemi e modi di trattare le parti che ricordano anche e ancora quei passaggi delle composizioni dello stesso Lipparino più legati alla tecnica del contrappunto vocale (anche classicheggiante) che a quella di un linguaggio strumentale. Interessante è la conduzione delle parti di violone e basso continuo. Il violone è utilizzato in modo di contrappunto, imitando (ma a volte anche proponendo) i fraseggi proposti dal o dai violini o partecipando a declamazioni “corali”. Il
basso, concertante, mantiene un costante rapporto di relazione con le voci superiori alle quali viene affidata la conduzione del brano e alle quali sono riservati alcuni spunti virtuosistici.
Il basso continuo è proteiforme: a volte appare come basso seguente, a volte come raddoppio della linea del violone (che spesso approfitta del sostegno della nota principale del basso continuo per aprirsi in fioriture) altre volte come contrappunto alle voci superiori. Insomma, la linea di basso continuo, pur essendo ben lontana dalle difficoltà imposte dal virtuosismo o da impegnative armonizzazioni, si emancipa dalla funzione di puro sostegno delle parti, entrando nell’eloquio della composizione e questo mi pare possa essere considerato un elemento di modernità. Le stesse composizioni, del resto, nel susseguirsi quasi ininterrotto di brevi cadenze, solo raramente acquisiscono la chiarezza di disegno melodico preordinato a favore però di un impulso improvvisativo, modulato su percorsi armonici abbastanza liberi che certamente discostano queste composizioni strumentali dallo stile di quelle vocali praticate dallo stesso Lipparino.
E questo accadde tra le mura dei conventi agostiniani.