Celebrazione eucaristica del 28 agosto 2014. Omelia del
Segretario di Stato, il card. Pietro Parolin, tenuta
nella Basilica di sant’Agostino in Campo Marzio
Cari fratelli e sorelle,
sono grato al Priore Generale, p. Alejandro Moral Antón, al Priore provinciale e agli altri membri dell’Ordine e della famiglia agostiniana per avermi invitato a presiedere questa celebrazione, nella festa di Sant’Agostino, il grande dottore e padre della Chiesa. Insieme a voi, qui presenti in questa artistica basilica così ricca di storia e di memorie, ringrazio Dio per la luce che ci dona attraverso la conversione e la sapienza dell’insegnamento del Vescovo di Ippona.
Il mio pensiero si volge spontaneo ad un anno fa, quando il Santo Padre, in questa chiesa e in
questa stessa circostanza liturgica, celebrava la Santa Messa di apertura del Capitolo Generale dell’Ordine agostiniano. Per questo, al termine di questa Eucaristia, inaugureremo una targa a ricordo di quell’eccezionale evento. Mi piace ripensare alle parole pronunciate dal Papa proprio qui, accanto alle spoglie mortali di santa Monica, madre di S. Agostino. Sua Santità invitava, specialmente i consacrati e le consacrate, a vivere la “pace dell’inquietudine”: l’inquietudine della ricerca, l’inquietudine di un incontro mai appagato, l’inquietudine dell’amore. Si tratta di suggestivi concetti, mutuati dall’itinerario spirituale di Agostino.
Il brano degli Atti degli Apostoli (2,42-47) poc’anzi proclamato ci ha ricordato i primi cristiani avevano ogni cosa in comune e dividevano le loro sostanze con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. A questo modello di comunione e di condivisione si è ispirato sant’Agostino per dare forma evangelica al desiderio di vita comune dei suoi frati. Spesso nelle sue opere ricorre questo testo biblico, ma soprattutto nelle comunità da lui fondate e nella sua celebre Regola, vediamo attuato questo “santo proposito”: vivere con un solo cuore e una sola anima in Deum, radicati nell’unità reciproca e protesi verso di Lui. Questa tensione è l’inquietudine che il Santo Padre Francesco ha invitato a vivere, una inquietudine di pace, perché la pace, in questo pellegrinaggio terreno, si trova oggi in Deum, domani nella pienezza del riposo in Lui.
«Cercavo la via per procurarmi forza sufficiente a goderti, ma non l’avrei trovata, finché non mi fossi aggrappato al mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (Conf. VII, 18.24). Così scrive Agostino quando l’ago della bussola della sua vita iniziò a dirigersi decisamente verso Cristo. Dopo aver a lungo vagato nel buio, il suo cuore si infiammò d’amore per Gesù e i fratelli, tanto che il Santo d’Ippona è spesso raffigurato con un cuore fiammeggiante in mano. L’incontro con “l’umile Gesù” e lo studio assiduo degli “ammaestramenti della propria debolezza” trasformarono la sua vana sapienza in una via all’umiltà. Si buttò con la massima avidità sulla venerabile scrittura, e prima di tutto sull’apostolo Paolo (cfr. Conf. VII, 21.27).
Nella seconda lettura (2Tm 4,1-8) abbiamo ascoltato l’esortazione di san Paolo a Timoteo:
«annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera,
esorta con magnanimità e insegnamento» (v. 2). Queste parole evocano l’itinerario sacerdotale ed episcopale di sant’Agostino. Egli fu davvero un fedele e coraggioso annunciatore del Vangelo, animato costantemente da un fervido zelo apostolico. Il suo ministero fu caratterizzato da incessante predicazione e studio, preghiera e contemplazione, mosso dal desiderio di raggiungere tutti e di portare ognuno a Cristo. Egli stesso, già Vescovo, lo confidò in più occasioni: «Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti: è un ingente carico, un grande peso, una immane fatica» (Sermone 339,4). Anche se egli stesso in un’altra occasione aggiunge: «Chi ama non fa fatica; e se fa fatica, ama la fatica che fa».
La pagina evangelica (Gv 10,7-18) ci ha riproposto il modello del Buon Pastore che dà la vita per le pecore e ci ha ricordato la radicalità del dono a cui e chiamato ognuno di noi. Anche sant’Agostino dovette spendere ogni sua energia di pastore, a volte a rischio della vita, soprattutto per cercare di ricomporre la Chiesa in Africa lacerata da uno scisma, quello donatista, che la divideva da quasi un secolo. La “tunica senza cuciture”, come amava chiamare la Chiesa, era a brandelli. E le lotte spesso diventavano violente. Egli riferisce di aggressioni notturne che mettono a soqquadro le case dei chierici cattolici, spogliandole di ogni cosa e lasciandole deserte; poi li rapiscono, li fustigano a sangue e li colpiscono a fil di spada, abbandonandoli in fin di vita (cfr. Contro Cresconio III, 46). Agostino stesso sfuggì per puro caso ad una imboscata tesagli per ucciderlo. Ma egli con pazienza e dottrina si operò in ogni modo per confutare e persuadere, nel desiderio di ricondurre i dissidenti all’unità, portando la discussione sul piano teologico e non politico. I frutti furono numerosi e per questo il suo biografo Possidio può scrivere che «con l’aiuto di Cristo, di giorno in giorno sempre più aumentava e si diffondeva l’unità della pace e la fratellanza della chiesa di Dio» (Possidio, Vita di Agostino, 13).
Le numerose comunità, i tanti uomini e donne che il Vescovo di Ippona conquistò a Cristo con la sua testimonianza, sono il segno della fecondità di una vita santa e sono per tutti noi un esempio a perseverare con gioia nella fede, nonostante le difficoltà e le tribolazioni. La luce della sua vita brillò infatti in tempi di continui conflitti e di rivolgimenti epocali, come la caduta di Roma e l’invasione dei Vandali che assediarono Ippona proprio mentre Agostino stava morendo. Ma egli non solo non si scoraggiò, ma intraprese un serrato dibattito richiamando la lettura della realtà nell’ottica della fede. Scrisse, infatti, un’opera, La città di Dio, per imparare a leggere in modo più profondo il proprio tempo e per diffondere una nuova ratio del vivere sociale. Si tratta di una lettura sapienziale che pone al centro il cuore dell’uomo e indica la vera natura della speranza cristiana.
Questa prospettiva esistenziale e spirituale risulta valida ancora oggi. Siamo tutti chiamati a interrogarci dove poggia il nostro cuore: sulla roccia di Cristo o sulla sabbia dell’affermazione di sé? La storia infatti, secondo Agostino, è mossa da due amori che diedero origine a due città, alla città terrena l’amore di sé fino all’indifferenza per Dio; alla città celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza di sé (cfr. La città di Dio XIV, 28).
L’amore in definitiva è ciò che definisce l’uomo nella sua natura più vera. Ce lo ricorda il nostro Santo, parlando di sé: «Il mio peso è il mio amore, esso mi porta dovunque mi porto. Il tuo Dono ci accende e ci porta verso l’alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore» (Comm. prima lettera Giovanni, Omelia 2, 11). Chi ama Cristo come lo ha amato Agostino può veramente fare ciò che vuole («Ama e fa’ ciò che vuoi») perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo, così che la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio, ma integrata nella volontà di Dio.
Così sant’Agostino, con il suo esempio e la sua testimonianza di cristiano e di pastore, ci incoraggia ad affidarci al Cristo sempre vivo perché risorto, ad amarlo con tutto noi stessi e a trovare così la strada della vita vera costruendo insieme la città di Dio, il suo Regno.
PIETRO CARD. PAROLIN Segretario di Stato Città del Vaticano